Una storia: il rischio

Una bella storia, questa di Silvia Mari che si sottopone ad una mutilazione chirurgica volontaria

non per mettersi in condizione di esibire le “tette d’ordinanza” prescritte alle ragazze per sfondare nel mondo dello spettacolo, ma per non dover vivere nell’angoscia, in attesa dell’avverarsi di un destino di malattia e di morte.
È la storia di una giovane donna coraggiosa e determinata. È la storia di una donna che, razionalmente e laicamente, usa gli strumenti della scienza per plasmare da sé il corso della sua vita. Non è una diagnosi precoce (che richiede comunque di aver già, infiltrati e silenti nel tuo corpo, i primi segni del male) è una diagnosi teorica, letta sulle mappe misteriose dei cromosomi, dell’eredità genetica, quella che Silvia impugna, e affronta.
Quella che ci racconta è la storia di un’eroina post-moderna, quindi: appassiona e commuove, certo, ma suscita ammirazione e rispetto più che compassione e pena.
L’ho letto quasi trattenendo il fiato, identificata come chiede la tragedia, leggera come consente la commedia. La commedia dei sentimenti, quella che mostra i pericoli, li sfiora, li sfida e li scansa. Per regalarci un lieto fine. Non si ammalerà e non morirà giovane, Silvia, come sono morte giovani tutte le donne della sua famiglia. Non si ammalerà perché ha scelto di fare tutto quanto è in suo potere per non ammalarsi.
È un segnale forte e lo accogliamo con gratitudine. E vorremmo inoltrarlo ai tanti (troppi?) personaggi legati al mondo cattolico, conservatore e integralista, che si sono battuti come leoni per impedire l’uso delle staminali, per boicottare la procreazione assistita, per togliere alla scienza il suo scopo più nobile: aiutarci a vivere meglio, più a lungo, a soffrire di meno,a non soffrire se si può evitarlo o a smettere di soffrire, in nome di un assioma atroce, che noi non siamo padroni del nostro corpo. E quindi non siamo abilitati a decidere come vivere la maternità, la malattia, la morte.
Non è così, cari signori. E vorrei che leggeste questo piccolo libro.
Leggetelo.
Senza pregiudizi.

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Ascoltate l’inimitabile suono cristallino dell’autenticità. Sentite la fatica, il dolore, le domande, i dubbi, la paura ma anche la determinazione, la gioia, la forza.
Sono belle pagine. Scrive con esattezza e sobrietà, Silvia, con il talento naturale per l’introspezione che è dei narratori e dei poeti.
Sono belle le pagine autobiografiche e sono belle le riflessioni sull’esperienza.
Sono belle anche le interviste, con le quali Silvia ha voluto corredare il testo.
Forse l’ha fatto per una sorta di nobile intento pedagogico, perché altre possano, come lei, imboccare il cammino della salvezza, con tutte le informazioni del caso. Forse l’ha fatto per interrompere l’emozione della storia con qualcosa di più freddo, come insegnava Bertolt Brecht, nei suoi drammi didattici, quando cercava l’effetto di straniamento, per non parlare soltanto al cuore del suo pubblico, ma anche al cervello.

Silvia Mari ci è riuscita.
A farci piangere, a farci pensare.


Lidia Ravera