FONTE: www.glistatigenerali.com

Di Lara Facondi

 

Perché per parlare di malattia prendiamo in prestito le parole della guerra? Una si ammala e diventa di colpo una guerriera e allora deve scendere in trincea, imbracciare le armi, costruire una corazza e combattere. Se vive ha vinto, se muore ha perso. Non solo, quindi, deve fare esami medici, prendere medicine, stare male per gli effetti collaterali, ma deve anche combattere.

Magari per alcuni immaginarsi come eroi che devono sconfiggere un drago mostruoso può essere d’aiuto, uno stimolo ad alzarsi ogni giorno dal letto e affrontare la giornata. Ma chi invece ha un carattere mite e nei panni del guerriero/a non ci si vede proprio? Ha perso in partenza? Si deve sobbarcare di sensi di colpa perché non è abbastanza forte? O invece ci sono altre strade che può percorrere?

Ogni volta che qualcuno muore di cancro, basta guardare in questi giorni quello che è uscito a proposito di Nadia Toffa, si legge: “È stato sconfitto dal male incurabile”, “Ha lottato contro un brutto male, ma non ce l’ha fatta”. Questo dà la misura di come l’immaginario collettivo e i mezzi di comunicazione siano rimasti fermi a “Love story” e “Scelta d’amore”, dato che oggi di cancro si vive, oltre che si muore. Intanto non è un “male incurabile”. Anzi, si cura di continuo e, in sempre più casi, si guarisce.  È sempre più una malattia cronica, come il diabete, e aumenterà la sua incidenza se continueremo a inquinare, mangiare male ed essere frustrati e infelici. Quindi tante persone vivranno a lungo con la malattia, più gestibile e curabile e, in alcuni casi, guaribile. Per cui bisognerebbe scegliere con cura le parole quando si scrive di qualcuno che muore, a cominciare dal tralasciare i termini “quel brutto male”, “male incurabile”, “male che non lascia scampo”. Per amor di verità, tanto per cominciare, e per sensibilità verso chi è malato per continuare.

La malattia è un fatto umano, non qualcosa di estraneo da combattere e vincere. Le cellule che si replicano velocemente invadendo i tessuti sono dentro il corpo, ne fanno parte. Sarebbe bello strapparle e gettarle in un pozzo profondo, ma non si può, non sempre almeno, non del tutto. E allora, come dice in “Chirù” di Michela Murgia il personaggio della madre, malata di tumore, «sto provando a farci pace, ma tu continui a dire a tutti che combatto».

Le metafore belliche sono ovunque negli ospedali, non solo per il cancro. «Vi sono “reparti” e “divisioni” – scrive Marina Sozzi nel suo libro “Non sono il mio tumore” – si parla di “presidio sanitario”, di lotta o guerra contro le malattie, di linee di chemioterapia, e perfino nella sperimentazione di nuovi farmaci i pazienti vengono “arruolati”». Tutto questo ha uno scopo? Secondo l’autrice sì. «L’immagine del nemico è molto efficace per ingaggiare il paziente nella battaglia – scrive Sozzi – L’attraversamento delle cure oncologiche è così impegnativo e sfiancante che un po’ di spirito guerresco, pensano molti oncologi, è senz’altro provvidenziale».  Anche se è una strategia che perde la sua efficacia non appena il paziente si confronta con la fatica delle terapie. Ma non è solo a lui che si guarda: «Indurre un atteggiamento bellicoso – aggiunge la scrittrice – protegge il sistema di cura dagli eventuali crolli psicologici dei pazienti: fare di loro tanti soldatini, risulta funzionale anche per la struttura oncologica». Che altrimenti potrebbe trovarsi a dover gestire gente in preda alla disperazione che urla per i corridoi.

Si tratta tuttavia, secondo Sozzi, di una retorica che tenderà a scomparire, dato che «Anziché guarire o morire, si apriranno di fronte ai malati spazi di coabitazione con la malattia. Anche senza remissione. Una situazione di questo genere però richiederà una lettura del cancro diversa da quella dell’invasione aliena. Posso vivere con un mostro dentro di me?».

Forse, come sosteneva Susan Sontag prima e poi anche Umberto Veronesi, va fatta sul cancro un’operazione culturale, in modo da scardinare l’associazione immediata con morte e sofferenza e ridefinirla come malattia cronica, al pari di altre, seppure potenzialmente mortali. La stretta relazione tra cancro e morte nell’immaginario collettivo l’aveva resa bene e presa anche in giro Mattia Torre nella sua serie tv “La linea verticale”, in cui l’oncologo veniva rappresentato sempre accompagnato dalla signora con la falce. Torre compie una grande operazione di rottura rispetto all’idea corrente del cancro e di tutto quello che vi ruota intorno, perché ne restituisce un’immagine profonda e variegata: fatta anche di angoscia e paura, ma soprattutto grottesca e perfino comica a tratti.

L’ironia è invece l’elemento che spesso manca nella narrazione del cancro. Se ne parla, quando se ne parla, spesso a voce bassa, con tono cupo. Si raffigura con uomini e donne senza capelli, il volto emaciato e gli occhi spenti, quasi sempre in un letto d’ospedale. Per carità c’è anche quello, ma sbagliato ridurre tutto a ciò che è una fase. Si fa per comodità, per paura, per incapacità. Soprattutto per paura, forse. Perché un malato deve essere ben riconoscibile, altrimenti, se somiglia troppo ad un sano, qual è la differenza? Allora anche il sano può ammalarsi e morire? La malattia mette l’uomo e la donna di fronte alla fragilità umana, all’ineluttabilità della morte. Un argomento tabù nella patinata civiltà occidentale, sempre più lontana dalla natura (dove invece la morte è visibile di continuo) e sempre più proiettata nel mito dell’immortalità.

David Servan-Schreiber, psichiatra e scrittore, racconta nel suo libro “Anticancro” che un giorno era a pranzo con amici e uscendo dal ristorante era allegro e rideva a crepapelle. Lo vide un suo collega che sapeva della malattia e gli si avvicinò con una faccia da funerale «Gli lessi in faccia la disapprovazione, come se fosse di cattivo gusto divertirsi quando si è malati». Per fortuna il vento sta cambiando.  Lo dimostra un fumetto di recente pubblicazione, “Triploguaio”, scritto da Isabella Di Leo, una ragazza che a 28 anni ha incrociato il tumore al seno e ha deciso di raccontare la sua esperienza con QBM, “Quel brutto male”, disegnandolo come un mostriciattolo viola che un giorno qualunque ha deciso di piazzarsi a casa sua. Con leggerezza e capacità di prendersi in giro, l’autrice scherza anche su momenti duri della terapia, mostrando che di problemi gravi e pesanti si può ridere.

C’è poi l forum “Ragazze fuori di seno”, creato e facilitato dal dottor Salvo Catania, che usa molto l’ironia per ribaltare la retorica sul cancro. Le vignette di Mafalda appaiono spesso, proprio a ricordare che anche chi è malato può ridere e vivere con leggerezza, con un bagaglio a mano, lasciando a terra il superfluo.

Ha sorriso fino alla fine Nadia Toffa, insultata sui social per aver detto che era riuscita a trasformare la malattia in un dono, un’opportunità. La sua colpa è stata forse di non essersi comportata da “brava malata”, di non essersi nascosta, di avere continuato a fare una vita normale. Quello che sfugge è che il malato è orientato verso la vita. Sembra paradossale, ma è così. Mentre tutti intorno a lui annusano la morte e ne hanno paura e la temono, il malato vede la vita in modo più chiaro: i colori più nitidi, i problemi quotidiani meno pesanti e il mondo un posto pieno di opportunità da cogliere. Come recita Valerio Mastandrea nel suo monologo in “La linea verticale”: «So che voglio godermi minuscoli pezzi di vita… voglio uscire e andarmi a conquistare con tutte le forze quello che c’è là fuori». E allora forse se non si può allungare, la vita si può allargare, come suggeriva Luciano De Crescenzo. Riempirla di curiosità, relazioni piene e gioiose, emozioni, passioni. Non serve essere guerrieri ed eroine per fare questo. Come amava dire Ada Burrone, pioniera di un approccio nuovo al cancro: «Il tempo non è nelle nostre mani, il modo di viverlo sì».

Foto tratta da “Triploguaio” di Isabella Di Leo,  edizioni Beccogiallo, 2019