COMUNICATO STAMPA - SopratTutto Scrivere - Lara Facondi, il bando letterario di IncontraDonna

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IncontraDonna Onlus ha lanciato la terza edizione del Premio letterario “SopratTutto Scrivere – Lara Facondi”, la cui premiazione è avvenuta il 14 Giugno presso la Libreria Tra Le Righe.

Le opere premiate sono state scelte da una giuria presieduta dal regista Francesco Bruni,  e composta da giornalisti, scrittori, fumettisti, professori, librai ed editori: Marina Morbiducci, Anna Maria Scaiola, Mara Matta, Silvia Mari, Loretta Santini, Claudia Fanelli, Paola Mastrobuoni, Isabella Di Leo e Valerio Giacone.

 

 Franco Ricci è vincitore del premio Miglior Racconto con La maniglia di ottone:

"2 sulla panca in formica, o forse in metallo, addossata alla parete del lungo corridoio, negli spazi tra I finestroni di quell’ospedale.

Ora, solo, seduto, mentre accompagno con lo sguardo mia madre che, chiamata forse con il numero del suo letto, varca la porta grigia della sala raggi.

Solo, ancora, 20 – 30 minuti, con un senso sgradevole di passività e al tempo stesso pensando ad una, mille cose, nell’infruttuoso tentativo di pensare a nulla.

Di nuovo in due, l’una  accanto all’altro, nello scambio incerto, vagamente pudico, di sguardi interrogativi che non evocano – non possono – alcuna risposta.

Qualcuno sospinge meccanicamente la porta vetrata, con il ritorno a molla, una di quelle che interrompono la fuga dei grandi corridoi dei vecchi ospedali, una di quelle con la grande maniglia verticale in ottone.  S’affaccia e chiama: il figlio della Sig.ra……o forse il figlio del numero….

Sono proprio io ad essere evocato, in virtù d’una consuetudine di allora, per cui le informazioni, specie le notizie non belle, venivano comunicate non ai diretti interessati, bensì  ai familiari più stretti.  Oltre che il figlio però,  sono anche, figuriamoci, uno studente di medicina al II anno, uno, più  o meno  già  “ del campo".  Ciò perlomeno  in parte basta, per alleggerire il peso del dubbio che affanna mamma e nutre la sua angoscia.

Avviandomi, il cuore certamente batte più  veloce e forte del solito; ma in definitiva anche io mi aggrappo all’inconsistente titolo maturato e ciò  sembra regalarmi una sufficiente calma.

L’anziano  primario radiologo ( mi dà l’idea  di un vecchio elefante stanco ed in effetti siamo nel tardo pomeriggio, alla fine del turno di lavoro), io alla sua destra e davanti a noi 2 – 3 lastre appese tramite minuscole mollette al diafanoscopio.  Mi colpisce il suo luminoso bianco, solo in parte schermato dalle pellicole scure, sorta di stencils che filtrano la luce, modulandola perché si possano trovare adeguate risposte per gli occhi che le interrogano.

Il mio sguardo scorre parallelo a quello del “ Collega" al mio fianco ma, come tiro di vecchio archibugio, percorre un itinerario irregolare, contorto e non arriva a bersaglio.  Non potrebbe del resto, non c’è la necessaria polvere, cioè una sufficiente cultura a spingerlo ed in realtà non c’è  neppure la voglia di centrare l’obbiettivo.

La mia tensione sale, sospinta dal braccio destro del professore che accompagna la sua mano fino a farle guadagnare la mia spalla sinistra:” figliolo, queste ( ed impietosamente me le indica), al 90% sono metastasi". 

Nient’altro  mi rimane di quell’uomo,  forse solo un rapido saluto di commiato, mentre ancora distintamente mi parla il breve percorso di ritorno da mia madre, sulla panca, al di là della porta vetrata, una di quelle che interrompono la fuga dei grandi corridoi dei vecchi ospedali, una di quelle con la grande maniglia verticale in ottone.

Il cervello cerca in un tumulto, qualcosa che assomigli ad una via d’uscita,  di fuga.  Sento di dover riversare a quel numero che mi aspetta con ansia, seduta sulla panca, una narrazione accettabile, credibile, plausibile compromesso tra l’appena accaduto oltre la siepe/ porta ed il desiderio di offrirle il dono di un possibile varco ancora aperto al domani, alla speranza.

Dov’è  il bandolo della matassa che vado con angoscia cercando?  Ho 3 metri scarsi di tempo per trovarlo.  Vorrei un miracoloso sapone che potesse lavare via il senso appiccicoso e denso dell’ineluttabile drammaticità del momento.

La mia mano giunta alla maniglia d’ottone è  consapevole che con tale paziente, non se la può cavare con le rigorose, laconiche ma appropriate parole del radiologo.

Non ho memoria di ciò che le dissi, ricordo solo gli occhi arrossati, lucidi e inquieti di Teresa che in una sospensione di stati d’animo, aspettava l’ambasciata  del figlio.

In realtà un’altra cosa ricordo bene o forse, nel ricordo, molto bene avverto, anche se al momento ne avevo una percezione confusa: avevo varcato quella porta vetrata, con il ritorno a molla, una di quelle che interrompono la fuga dei grandi corridoi dei vecchi ospedali, una di quelle con la grande maniglia verticale d’ottone, ne ero stato espulso uomo."

 

Giovanna Morabito è autrice della Miglior Poesia I miei viaggi/la mia storia:

 

"Quando  ero  

nei luoghi della Storia 

inconsapevole

nei giorni della gloria 

dello splendore dell’ anima mia

quando ancora brillava l’ amore

e la vita non era così vecchia.

 

Avrei potuto scivolare dagli scalini dell’ Empire

cadere in  mare davanti all’ Opera House

essere divorata dal coccodrillo di Orlando

incontrare la mamma di Obama

o lì a Praga  morire insieme al  giovane  Jan.

 

Quando  ero anch ‘io

a  fare la mia Storia 

inconsapevole

a sorridere o meno

a scegliere la porta stretta.

 

Oggi è ancora il tempo della Storia.

Devo crederlo oppure morire

Sarà di nuovo Pasqua a breve.

Chi può torna in Andalusia per i riti catartici

rivede albe finestre

corre a perdersi in nuove vie 

oppure torna indietro

per farsi protagonista.

 

Io qui vivo la sorte  che il cielo ha voluto.

Potrei fare un passo verso l’ avvenimento

Un passo e  ripeterlo all’ infinito."

 

Anna Chiara Fratesi è  vincitrice della sezione Opere Grafiche con Intro:

"L’opera, realizzata in acrilico, è anche riproposta attraverso un video con sottofondo musicale, dove la parola ricorrente è “desiderio”. L’immagine del quadro è ritratta da più angolature, con avvicinamenti e allontanamenti dalla focalizzazione principale, in una sorta di abbraccio e stretta affettuosa della sostanza vaporosa. 

Infatti, visualmente, l’immagine appare rarefatta e impalpabile, pastosa e leggera, dai colori pastello che si fondono con grazia e armonia. 

Vi si si può forse rinvenire, il ritratto di un angelo al femminile, con le ali sinuose, aperte, e potenti, ma non in volo, non spiegate, forse ripieganti, forse pronte piuttosto ad accennare ad una danza nello spazio circostante, che, a sua volta, si fonde con la forma delle ali. Non si rintraccia una figura precisa, piuttosto un’evocazione di una presenza, che è liminale, che scompare, pur essendo presente. In tale osmosi o compenetrazione, varie entità si sovrappongono e sussistono unite."

 

Veronica Cappello è vincitrice del Premio Speciale Maria Arcidiacono con l'opera Io:

 

"Questa è una storia di cose che stanno dentro. Dentro al nostro corpo. Ognuna a modo suo. Nel mio caso è
una storia di voci, bambini e di un intruso. Le prime le ho ascoltate, i secondi li ho chiamati, il terzo l’ho
ricacciato da dove era venuto.
Ho sempre saputo che nella vita, prima o poi, mi sarebbe successo qualcosa.
Non sapevo bene cosa, ma sentivo come se questo pensiero fosse sempre lì, in agguato, a guardarmi e mi
avesse impedito, da sempre, di essere davvero me stessa.
Davanti ai suoi occhi commossi tutto si è compiuto. Tutto è chiaro.
Ora so cosa doveva succedermi, cosa devo combattere.
Quel presentimento mi ha resa forte, mi ha allenata. E sono pronta.
Qualunque cosa ci sarà da fare, io la farò.


CAPITOLO 1
Quando arriva il giorno che ti cambia la vita
Tutto è cominciato da un dolore. Per un po’ di tempo non ho nemmeno ben capito dove fosse localizzato.
Forse non volevo semplicemente crederci: del resto, sono anche un medico. Così invece di aspettare quattro
mesi per farmi un controllo, così come mi era stato suggerito da un collega, ho pensato di accorciarmi l’attesa
e aspettarne solo due.
Due mesi passati velocemente: ero così stanca in quel periodo che devono essermi volati, perché due mesi
di convivenza col dubbio e col dolore nemmeno me li ricordo.
La prima cosa che ricordo invece è il silenzio del collega al momento dell’ecografia che non avevo voluto
guardare. Mi ero girata giusto il tempo di vedere il rosso e il blu che si alternavano sullo schermo, mentre il
dottore passava e ripassava sulla zona del dolore, facendomi tornare in mente gli studi di medicina. Rosso e
blu che si alternano. Non può essere!? No, non sarà nulla. Vedrai.
Vado a fare la mammografia e faccio finta di nulla. Provo a spegnere il medico che è in me. Attendo sulla
poltrona, il medico mi chiama, mi alzo, entro nella stanza, mi spoglio, seguo le istruzioni.
Non ha usato nessuna di quelle parole. Tumore. Cancro.
Però gli occhi, no, quelli non me li posso scordare. Qualche lacrima, perfino. E ho capito che era una brutta
notizia, mentre lui aveva già cominciato a dirmi che era proprio brutta brutta: c’erano già delle calcificazioni
all’altro seno. Non un buon segno. Il segno che quello se ne era già andato in giro, da destra a sinistra.
Tento di rispegnere il medico che è in me, che snocciola termini uno dietro l’altro: risonanza, chemio, radio.
Ho spento il medico, ho acceso la madre e la donna che aveva avuto un presentimento fin da bambina. Se
quel presentimento mi aveva allenato da sempre, ero pronta a combattere.
Ora tutto quello che devi fare, tu lo fai. Non posso andare da nessuna parte, adesso, se non dal mio bambino.
Un bambino da cui non mi sono mai separata per più di due ore.
Mi concedo una lacrima nel dirlo alla mia migliore amica, poi basta. Amica che l’anno successivo diventerà
una sorella di battaglia.
Mi faccio prendere dalla furia organizzativa, tutte le energie che mi lascia la paura le devo convogliare in una
strategia per gestire la quotidianità di mio figlio mentre io combatto. E per combattere, mi taglio i capelli
perché LUI, mio figlio, non deve subire traumi.

Devo aspettare a fare la risonanza perché ho il ciclo, perciò fisso il parrucchiere e trovo un aiuto valido che
mi aiuti a gestire il bambino. Come scegliere le braccia che ti sostituiranno attorno a tuo figlio? Come sempre,
senza referenze, ma ascoltando il cuore.
Si è seduta a giocare con LUI, e LUI la guardava e rideva. E allora ho detto, va bene. E ho capito di aver scelto
bene quando lei, di fronte alla verità, al racconto delle settimane che sarebbero arrivate, non si è tirata
indietro. Mi servono alleati a tempo pieno. Mi serve la mamma che per un po’ non potrò essere.
Poi arriva una inaspettata buona notizia: le calcificazioni non sono calcificazioni cattive, ma esiti di un
allattamento super intensivo. Il bastardo, allora, non ha fatto in tempo a farsi il giro del mio corpo per colpire
ancora: sono io che faccio ancora in tempo...
Levatemi tutto. Professore, qual è il problema?
Perderà la sua bella quarta di seno signora, mi avvisa. E per stare tranquilli dovremo levare anche il capezzolo.
Penso a quel seno grande, ammirato, che in fondo non mi ha fatto sentire sempre a mio agio. Penso che non
m’importa, che mi levino tutto e subito da entrambe le parti e che devo tornare da mio figlio. Costa molto?
Ho lavorato tanto, se è servito per fare in fretta e in fretta tornare da LUI, bene: pagherò.
E ho scelto il medico come ho scelto quella seconda mamma, con il cuore. Ascoltano quelle mani che mi
visitano con una dolcezza che pochi medici ancora usano. Quel suo chiudere gli occhi per non distrarsi forse
e non perdere nemmeno un millimetro di me. E io ho chiuso gli occhi e ho firmato tutto.
Non tutti, però, sono come il medico che ho scelto con il cuore. Il chirurgo plastico deve ha litigato con un
professorone, non è più nell’equipe. Lo sostituisce un collega nervoso, poco umano. Vuole ridurmi anche il
seno sinistro per far quadrare un suo senso di estetica. Ho un seno molto grande, aggravato dal fatto che ho
smesso di botto un allattamento intensivo. Ancora di più penso che devo tornare prima possibile da LUI.
Litigo, vengo invitata a non fare polemiche altrimenti slitta tutto. Accetto. Voglio tornare a casa. E chiudere
gli occhi non è mai stato così bello.
Mio figlio passa le sue giornate con la persona che ho scelto e con pezzi di famiglia che sono tornati dal
passato. Una pietra sopra su quello che è stato, il momento del bisogno è un buon momento per ricominciare.
Sette ore di intervento, due notti di degenza e torno a casa da mio figlio.
La felicità di rivederlo compensa il mio seno che ora è una prima, con le cicatrici che non si chiudono, un
capezzolo tagliato male, un seno naturale e uno con una protesi. Non importa, sono a casa.
L’importante è stato aver fatto tutto subito, averlo fregato sul tempo perché dall’istologico viene fuori che è
un carcinoma intraduttale multifocale, ma in situ. Una roba complicata, brutta che ha lasciato, per fortuna, i
linfonodi puliti.
E ora sono a casa e siamo LUI, io ed una bella terapia ormonale, programmabile, ma da fare. Una terapia che
mi avrebbe impedito di ascoltare l’ennesima voce che veniva da dentro. E io alle voci che vengono da dentro,
oramai lo avrete capito, devo sempre dare ascolto.
Prima di cominciare con gli ormoni, prima di chiudermi ogni possibilità, devo provare a dare un fratellino o
una sorellina a LUI. I medici mi danno sei mesi di tempo dall’intervento prima di cominciare quella terapia
ormonale che mi avrebbe reso impossibile il concepimento. Ci sono voluti solo quindici giorni per sapere che
stava arrivando: la voce da dentro, anche questa volta, mi stava chiamando.
Se vogliamo credere che le cose accadano per un motivo, il mio è stato che nessuno al mondo mai abbia
potuto provare una gioia più grande della mia durante la seconda gravidanza. Ero viva, con un bambino in
braccio e un altro nella pancia, arrivato per il solo fatto di averlo desiderato.

Nonostante la fatica di non essere capita da chi ti sta vicino, forse per troppa paura o dolore, non cerchi di
spiegarti, vai solo avanti mossa da questo motore inarrestabile che è l’avercela fatta.
E hanno tutti da ridire, parlano, si intromettono, e anche se non parlano lo capisci.
Perché non ti trucchi e non ti vesti più come prima, perché sei gentile ma non abbastanza loquace, perché
prima eri un medico, e ora una neomamma con un altro bambino in arrivo che si gode semplicemente il sole
al parco appoggiando la troppa stanchezza al passeggino, o solo a chi ha scelto per essere mamma con te,
tenendosi su con la felicità di una seconda occasione, una seconda vita, la tua e quella di un altro figlio.
Così, da sola, tieni tutto il peso sulle tue spalle. Anche il cambio di casa, perché con un altro in arrivo lo spazio
è troppo poco, dicono. Ci vuole una casa più grande, insistono, e naturalmente la devo cercare io.
Sono stanca, snervata, distrutta, agenzie immobiliari, magagne che vengono fuori, cause avvocati. Sono
stressata e mi ritrovo la psicologa di famiglia servita per pranzo. Ma a me la psicologa non serve: quante
donne che hanno avuto la mia stessa diagnosi ora si trovano in ben altra situazione? Io mi sto assaporando e
godendo la mia nuova vita ogni giorno. Vorrei solo che tutti non si sforzassero di trattarmi come se non fosse
successo nulla, quando son loro quelli che non hanno superato la paura e me la gettano addosso in un
momento che per me è di pure felicità.

Ho avuto un cancro e m’è andata molto bene.
Ora sono altre le cose di cui ho bisogno: fatemi respirare, lentamente, a lungo. Fatmi vivere, assaporare ogni
attimo di quelli che mi avevano detto che forse non avrei potuto più avere.
Avevo detto che non volevo la commiserazione di nessuno, ma non che non volevo essere capita. Dopo niente
potrà mai più essere come prima. In mezzo tanti buchi, buchi e solo altri buchi. Siamo noi, io, il mio bimbo,
la pancia, ma anche la volontà di un marito che, nonostante non abbia avuto la capacità di capire, ha avuto il
coraggio di non andare via. Perché io non avevo la forza di tenerlo con noi, non ce la facevo a lottare anche
per noi due.
Ma non voglio ricordare quel tempo, tanto, che ho perso a fare cose che non avrei mai fatto se fossi stata
“me, io”. Pre peimra cosa, avrei vissuto, respirato, accarezzato, coccolato, curato la mia seconda pancia.
Quanto mi manca ancora adesso: non riesco a ricordarla, non c’era tempo, tutto era soffocante e tutto mi
sfuggiva dalle mani. Ma. Ma io, ancora una volta, ce l’ho fatta. E lo so ogni giorno da quel giorno.

CAPITOLO 2
Da medico a paziente, quello che non vorresti vivere
A volte anche quando pensi di avercela fatta succede che ancora qualche prova resta da superare.
Stavolta però non avrei mai pensato di dover passare per la mortificazione di quando, da medico questa volta
a paziente, si è costretti a subire un trattamento non umano, se si finisce nelle mani di chi, credo, lavora nel
modo sbagliato. Nel momento in cui ce l’ho fatta decido di tornare ad essere donna: dalla mastectomia ho in
regalo un prima a destra, ma una quinta a sinistra, con esiti di pessi rovinata dalla gravidanza, quindi un forte
squilibrio tra i due seni. Non è solo una questione visiva, ho dolori alla schiena perché per compensare sto
sempre incurvata e storta, uso le fasce strette per bilanciare il tutto, magliette larghe ed accollate, no
costumi, no vestitini per nascondere. Sogno di poter mettere almeno una canottiera. Oltretutto il seno
sinistro è a forte rischio per cui devo fare controlli ogni tre mesi e con i bambini piccoli non ne posso più.

Faccio delle valutazioni psicologiche e si decide per l’intervento, con il posizionamento degli espansori per
cercare di rendere simmetrico il più possibile il tutto.
Stavolta all’intervento mi presento a cuor ancora più leggero: ci ero già passata, sarebbe stato più breve, da
medico sapevo essere comunque sempre un interventone con tutti i rischi del caso, ma insomma avevo tolto
un tumore!
L’intervento l’ho fatto, qualcosa non deve essere andato proprio alla perfezione perché mi ritrovo con un
ematoma fino al collo e delle fasce cosi strette da non respirare, ma sono sveglia. Ѐ finita, credo, ma non avrei
mai e poi mai pensato di passare due giorni di così grande difficoltà.
Due giorni in cui il dolore fisico mi impediva non solo di muovermi e parlare, ma anche di essere lucida, di
capire, e quanto ho sbagliato a pensare che non mi sarebbe servita una stanza privata, che potevo stare in
compagnia di qualcun altro, che a me, come al solito, ci avrei pensato io.
L’intervento è andato bene, sarò sempre riconoscente al prof. Che mi ha permesso di tornare ad essere una
donna simmetrica e a mettere non solo la canottiera, ma anche il bikini! Non pensavo però di essere
completamente ignorata, trattata senza rispetto, dopo che con il cuore ti affidi a medici, colleghi, per essere
curata, e in uno dei reparti in cui secondo me la delicatezza deve essere parte essenziale della terapia.
Quando ho aperto gli occhi c’era anche Luca, che a sorpresa era riuscito ad arrivare in tempo per salutarmi,
ed io ero così felice di essere di nuovo sveglia, di nuovo me: era sera, sono andati via tutti presto ed è iniziato
un dolore inimmaginabile ma mano che l’anestesia svaniva.
Era come avere il torace e la schiena trafitti da mille coltelli tutti insieme. Non potevo muovere nemmeno la
mano per arrivare al cellulare che mi stava sul cuscino accanto alla testa e l’unica cosa che riuscivo a fare, pur
soffrendo da morire, era restare immobile. Ѐ stata quella la notte in cui ho capito che la dignità di una
persona, che in quel momento è un malato, può arrivare a non contare niente per il personale del reparto, e
io ricordo solo la stanza e la confusione in testa per quanto male avevo. Non capivo: mi avevano detto che
era andato tutto bene, e perché allora non ero in piedi ma lasciata a morire di dolore? Se ci ripenso posso
sentirlo ancora oggi: e le richieste inascoltate, il sogno di un Toradol suonando al campanello anche se non
arrivava nessuno. Avevo visto una gentilissima anestesista subito dopo l’intervento a dirmi che andava tutto
per il meglio, che avrebbe scritto che potevo anche alzarmi quando avessi sentito lo stimolo della pipi, ma io
non potevo respirare: che cosa stava succedendo?
Chiedo il Toradol, mi fanno qualcosa in flebo, ma io sto male, troppo, ancora e non posso vedere o sentire
nemmeno LORO A CASA, non ce la faccio e soprattutto NON CAPISCO PERCHÉ, perché bisogna stare così.
Comincio a sentire di dover fare pipì... Suono e finalmente si affaccia un omone a cui chiedo di provare ad
andare in bagno, ma no, risponde, non posso alzarmi anche se l’anestesista mi ha detto di sì.
Chiedo di nuovo se posso avere un Toradol, risponde no, provo a dire che sono un medico, che quel qualcosa
cosa nella flebo avranno messo era altro, perché io non sono mai stata male cosi: lui torna indispettito, mi
mette la padella sul letto, e se ne va via.
Non riesco nemmeno a spiegare come sia riuscita ad abbassarmi pantaloni e slip, con molta fatica a faccio
pipì alla fine perché speravo che una volta fatta mi avrebbero aiutata ad alzarmi. Nonostante il campanello
quel tizio, che per fortuna vista la miopia non ho potuto guardare bene in faccia, mi ha lasciata quaranta
minuti con la padella sotto al sedere e i pantaloni calati.
Credo di aver spinto talmente tanto con la schiena sul letto che dopo questo, e il resto della nottata immobile,
mi sono rotta un dente e mi è venuta una vescica gigantesca sulla scapola, con tutto che avevo il materasso
anti decubito.

Cambio turno. La mattina dopo un giovane e gentile infermiere, vista la mia insistenza a sottolineare che
avevo qualcosa di bagnato sulla schiena, si è convinto a tirarmi su e vedendo il sangue sul lenzuolo mi ha
medicata. Stavolta era finita davvero, non vedevo l’ora di uscire, sono tornata a casa con una bella piaga
proprio dove devi mettere per forza il reggiseno post operatorio, e mi ha fatto compagnia un bel po' dato
che per almeno un mese dopo l’intervento bisogna dormire solo sulla schiena, col dente rotto, ma IO...
Penso a tutte quelle donne che sono ricoverate in quel reparto e che subiscono lo stesso trattamento: perché
questo è subire ed è profondamente ingiusto. Tu sei lì per curarti, per provare a superare tutto, e invece
esiste solo quello che per la maggior parte delle persone deve essere: i protocolli. Asettici, impersonali, senza
nessuna compassione per il dolore.
Se io non fossi stata operata prima di mastectomia, senza alcuna sofferenza e con tutta l’assistenza medica
e morale possibile, avrei pensato di poter sopportare tutto, anche tutto quel dolore e quel trattamento pur
di vivere: l’importante era togliere il tumore. Ma una cosa del genere non è giusta, non è tollerabile: mai.
Ora che l’ho scritto mi sento molto più leggera, quel dolore lo posso sentire ancora, ma non fa più tutto quel
male. E l’ultimo intervento, quello per rimozione degli espansori per avere le protesi definitive, l’ho fatto
ovviamente altrove, stavolta mettendo come condizione imprescindibile che si sarebbero presi cura di me
come si deve... e con il mio amico elastomero!


CAPITOLO 3
E oggi?
Eh... Oggi.
Oggi ho fatto un bel percorso, lungo e molto molto difficile, ma sono sempre stata e resto fermamente
convinta che nulla succede per caso, che probabilmente doveva succede perché io tirassi fuori la parte di me
che stava li sotto a morire soffocata.
Oggi sono diversa, finalmente libera di essere, quasi, invincibile.
So che nella vita ci sono e ci saranno sempre prove da difficoltà affrontare. Ma io ce l’ho fatta, contro tante
cose e anche grazie a lui.
Sono qui adesso e veramente me stessa finalmente: felice di me, di come sono, felice di essere mamma,
felice finalmente di poter respirare, di essere capace di chiedere aiuto e di affidarmi ancora nonostante tutto.
Di essere me contro quello che mi imponeva la mia famiglia, contro le scelte non veramente mie del passato
e ora che sto bene sto facendo di tutto per mettere a posto quello che di difficile la malattia ha lasciato nella
mia famiglia, a mio marito e ai miei figli.
Oggi sono IO, fortissima: una roccia a cui la mia famiglia e chi vorrà potrà appoggiarsi."