RESOCONTO E FOTO – Convegno del 15 Giugno all’oratorio del Gonfalone – Quando il virtuale incontra il reale, le terapie curano le relazioni guariscono

Ci sono molti modi per parlare di tumore al seno. Attraverso le statistiche o presentando le nuove cure, ad esempio.  Sabato 15 giugno 2019 abbiamo deciso di usare la lente della relazione. Quella tra pazienti, donne che diventano amiche, quella tra medici e pazienti, e perché no, anche quella tra dottori. Professionisti che vanno oltre e che, per prendere in prestito una metafora del professor Sandro Spinsanti intervenuto al convegno, scelgono di essere Copernicani in un mondo di Tolemaici.

Nonostante il caldo romano, circa un centinaio di persone hanno raggiunto l’oratorio del Gonfalone per assistere al convegno “Tumore al seno – Quando il virtuale incontra il reale, le terapie curano, le relazioni guariscono”.

«Ho lavorato molto negli anni addietro con il volontariato – ha detto la Prof.ssa Adriana Bonifacino, presidente di IncontraDonna onlus – però mi accorgevo che era una modalità che mi allontanava dalle persone, in Parlamento europeo ad esempio, o come tesoriere, non avevo un rapporto diretto con le persone e mi mancava. Credo che l’associazione sia nata proprio da questo bisogno di relazione, per lanciare un paracadute a chi si sentiva precipitare».

Chi riceve una diagnosi di tumore al seno spesso va in frantumi. Rimettere insieme i cocci e ricostruire un’identità è un lavoro faticoso che si alleggerisce se si può fare con il supporto di altre donne, di medici empatici, disposti ad ascoltare la narrazione del paziente. Molte donne hanno trovato sollievo e aiuto nel forum “Ragazze Fuori di Seno”, un luogo virtuale, con 700 utenti e quasi centomila commenti, in cui le donne si incontrano perché hanno in comune una patologia. Un posto in cui ci si ritrova quotidianamente: c’è la ragazza che dà il buongiorno e offre il caffè a tutte, quella che offre consulenze in materia di lavoro, ognuna ci mette del suo.

«Alleniamo la resilienza – spiega il dottor Catania, ideatore e facilitatore del blog –  perché non ha senso resistere. Invito le ragazze ad essere proattive, che vuol dire essere protagonista del proprio destino, assumersi la responsabilità di quello che si fa, essere consapevole di incidere, almeno in parte, sulla realtà».

Il dottor Marco Testa, cardiologo, ha parlato di medicina narrativa e digitale chiudendo il suo intervento con una frase di Hannah Arendt: «La narrazione, si sa, è un’arte delicata, essa rivela il significato senza commettere l’errore di definirlo».

C’è stato poi l’incontro tra alcune ragazze del forum ed altre di IncontraDonna onlus. La tavola rotonda è stata moderata da Carmen Vogani, giornalista, che ha dichiarato dal palco: «Mettere insieme due realtà che si occupano dello stesso tema è molto difficile, voi oggi qui avete compiuto un miracolo».

Anche l’arte può essere un modo per elaborare la malattia. Lo sa bene Isabella Di Leo, autrice del fumetto TriploGuaio, in libreria dal 4 luglio per Becco Giallo editore. «Alla scoperta del cancro, a 28 anni, sono caduta in un baratro – ha raccontato – ho fatto la chemioterapia neoadiuvante e poi ho scoperto di avere la mutazione Brca1 e a un certo punto mi sono detta che mi ero rotta le scatole di essere triste e ho pensato che aspetto avrebbe il mio cancro se fosse un personaggio dei fumetti?»

«Fate della vostra vita un capolavoro», ha invitato nelle conclusioni il professor Sandro Spinsanti, fondatore e direttore dell’istituto Giano per le medical Humanities, mentre la dottoressa Elvira Colella del Regina Elena ha letto un estratto scritto da una paziente del progetto di medicina narrativa dell’IFO: «Grazie al tumore ho imparato a vivere una vita più piena, più intensa, più felice. Grazie al tumore ho capito che i veri problemi non sono la stanchezza a fine giornata lavorativa, l’autobus che non passa, il ritardo a un appuntamento, la macchina che non parte. Grazie al tumore, io e mio marito abbiamo avviato le pratiche per adottare un bambino. Se non ci fosse il tumore forse avrei altre cose, ma ne avrei perse anche molte altre».


 

FOTO DI MIRKO BERTARELLI

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La ragazza di Istanbul – di Maria Luisa Valeri

di Maria Luisa Valeri

 

Aveva picchiato duro, quella sera. Il braccio me l’aveva trasformato in un tronco, duro, nodoso, e ci vedevo anche dei lividi o forse erano semplicemente carne morta.

Insomma una zampogna. Gonfio come una zampogna. E così dovevo stare con il braccio destro sollevato, come quando te lo ingessano e te ne vai in giro con una specie di arco sospeso in aria. Per non parlare degli occhi. Quella sera me li aveva conciati per bene: palpebre gonfie, incavati, avevano pure cambiato colore, così mi sembrava, cioè che uno fosse diventato nero e quell’altro, il sinistro, fosse invece rimasto dorato-nocciola. Poi, a guardar bene, è che a destra ero in ombra, e il dorato si era scurito, come ottone sporco.

 

Davanti allo specchio mi prese una frenesia incontrollata: cominciai a spogliarmi, volevo vedere che altro mi fosse successo. Siccome il braccio destro era come un pallone, pesava di più e allora ero piegata verso la parte destra: sembravo una pianta venuta su storta. Mi prese a ridere, una ridarella come quando da adolescente ridi con le tue amiche ma non sai perché. E non riuscivo a smettere. Ad ogni fitta dolorosa del braccio-zampogna me lo guardavo attraverso lo specchio e lo mandavo tranquillamente a quel paese. Con il medio alzato, s’intende.

Poi, seria seria, presi coraggio, accesi tutte le luci della mia camera, era la prima volta che lo facevo. Mi guardavo e mi piacevo pure. Mi ero mantenuta in buona forma, avevo la pelle morbida, le gambe niente male, caviglie fine, polpacci sodi, grazie alle passate lunghe camminate. E poi, voilà. Una testa perfetta che metteva in risalto l’ovale. Non avevo più un pelo, una peluria, un capello. Neanche lì. Pube da neonata. Ripensai a tutte le cerette, fatte per quando c’era nell’aria un appuntamento. Cazzo, che dolore! No, non era il braccio, questo era il ricordo dello strappo fatto da sola in casa, con quello schifo di odore di cera calda che riempiva le stanze e i maschi di casa che si turavano il naso lamentandosi “Non se ne può più!”.

E poi c’erano loro, le tette. Anzi. Una tetta e mezzo. Però quella intera non era niente male: piccola ma ancora soda; la mezza un po’ ricurva, ma col tempo…Col tempo cosa? “Lo sai, cara signora, che hai ingaggiato una bella gara con il tempo?”.

Questa cosa del tempo mi rattrista sempre, e così anche allora, davanti allo specchio. Mi ricoprii con la più bella camicia da notte di seta color champagne, appartenuta a mia madre, avvolsi la testa in un foulard glamour del colore dei miei occhi e me ne andai a letto, sotto le coperte. Il tempo di quella notte sarebbe stato lungo, il braccio si sarebbe gonfiato ancora di più, avrei stramaledetto i linfonodi che non c’erano più, così che la linfa non circolava più, aspettando la mattina dopo quando mi sarei recata all’ospedale per siringare tutto il liquido. In più.

Il tempo del cancro. Che non è esattamente un segno zodiacale.

Stavo supina, occhi chiusi, dovevo pensare, pensare e poi dormire. Pensare. Ai viaggi per esempio. A quelli del futuro. No, sei superstiziosa, meglio a quelli che hai fatto nei tuoi 48 anni. No, a quelli che ho fatto da sola, no anche a quelli che hai fatto con lui. Ma lui dov’è? Non c’è, siamo separati da un anno. Sì, però vi amate ancora. Ma no, è che…

 

Basta. Aprii gli occhi e decisi di alzarmi, dato che non mi mettevo d’accordo su quello che dovevo pensare e il dolore si faceva più forte se rimanevo distesa.

Non avevo più scritto neanche un rigo, eppure ne avevo una voglia…Scrivere ogni momento, ogni cosa che guardavo, sentivo, assaporavo, l’acido in bocca dopo la chemio, l’amore di mia sorella, la preparazione delle sue raffinate ricette per tentarmi, la morte di mia madre, le mie parole “Spero che non mi capiti come a nostra madre, di ammalarmi di alzheimer…”.No, non preoccuparti, ti ammalerai di cancro. E quello quando colpisce…ci va giù duro! Quella sera volevo riprendere a scrivere, proprio quella sera, con quel braccio, chissà come potevo fare ad accostare la mano al computer e premere sui tasti…Dunque. Mi recai nello studio, andai alla scrivania e accesi il computer.

 

Decisi di dare prima un’occhiata a facebook: ero iscritta da poco, su insistenza di un’amica, ma non ci stavo quasi mai, mi sembrava una perdita di tempo. C’erano espressioni di vario tipo, al solito. Ma all’improvviso, un messaggio “Ciao ragazza di Istanbul. Sto morendo. Il manager”. Seguiva l’indicazione di una mail. Mi salì un fiotto di sangue alla testa, tanto che mi sembrò che fossero ricresciuti i capelli. Mi alzai e me ne andai di fronte alla finestra e lì per lì mi ritrovai il viso rigato da lacrime e lacrime. Era per quel “Sto morendo” che piangevo sconsolata, per quella ormai lontana settimana di amore e sesso a Istanbul con il mio lui, o per quella parola “ragazza”? Mi asciugai con il dorso della mano. Mi annotai la mail. Chiusi Facebook.

Andai di nuovo alla finestra. Il cielo era scuro, senza luna. Nella strada in salita vedevo le luci dei due ristoranti illuminare il marciapiede, alcune persone mangiavano fuori, nonostante l’aria fresca di settembre.

 

Il braccio me lo tenevo con un foulard che mi girava intorno al collo, così mi pesava di meno. Pensavo pensavopensavo. Immagini risate paure. Mi risuonava nella testa il saluto “Ciao ragazza di Istanbul” ma era una voce senza volto. Ma perché dopo quasi vent’anni uno si rifà vivo, ti saluta e ti dice Sto morendo? Mi toccai le labbra con la sinistra, erano secche. Avevo bisogno di bere. Guardai la bottiglia. Il whisky andava giù liscio, era parecchio tempo che non bevevo. Mi sentivo già meglio, fiduciosa, generosa e non so che altro.

Come si fa a scrivere a un morituro, conosciuto, vent’anni prima, per poche ore, in condizioni, diciamo così, stravaganti, di cui, allora, non capii il nome e per il nostro poco tempo passato insieme io lo chiamavo manager e lui mi chiamava ragazza di Istanbul? Il whisky intanto andava giù liscio.

 

Ecco come succede. Noi siamo fatti così. Noi umani, intendo. La vita la vita la vita. Una linfa che si può fermare. Poi qualcuno ti chiama, ha bisogno di te e la linfa ricomincia a scorrere, il braccio è gonfio ma non tanto, gli occhi sono sempre più dorati e neanche tanto incavati, il corpo te lo senti, te lo tocchi. Èleggero.

Cominciai a pensare a cosa potevo dirgli al manager, ponendomi la questione se l’aveva invitata lui la morte, la sua, o si era invitata da sola. Propesi per la prima ipotesi.

 

Mi alzai le maniche della camicia di seta, mi sentivo avvolgere dal calore della sfida, di quella sfida, contro la morte. E intanto il whisky andava giù liscio. La musica. Il country di Cash andava benissimo. Ecco come potevo iniziare la mail “Caro manager, keep on the sunny side, c’è un lato oscuro e inquieto nella vita, c’è pure un lato assolato e luminoso. Anche se incontri affanni e oscurità, il lato assolato potrà trovarti. Tieniti sul lato assolato, sempre sul lato assolato, tieniti sul lato assolato della vita…”. Grande Johnny Cash.

 

S’era fatta l’una di notte, i ristoranti avevano chiuso, era calato il silenzio della città, che, se ti trova sveglia, più che desiderare di andare a dormire, è una promessa di avventure. Non avevo scritto nemmeno un rigo. Sta morendo. Scrivi, dannazione!

“Ciao manager. Sono confusa anche perché ho bevuto un bel po’ di whisky e certamente non dovrei. Qualcuno che si ricorda di te, dopo vent’anni, beh, non perché ci sei stata a scuola, o c’hai avuto una storia, o è stata una bella scopata, insomma niente. Qualcuno si ricorda di te per tre ore di volo, dopo vent’anni. E ti dice “Sto morendo”. Mi fermai e mi dissi Cazzo, ma che sei stupida? Mi vennero in mente vari film con i poliziotti americani, “negoziatori“ specializzati nel salvare ostaggi, potenziali suicidi e simili e quelli cercano sempre di parlare d’altro, mica ricordano all’interessato che ha detto che vuole ammazzarsi. Cancello quindi la frase. Continuo. “E sai cosa può succedere in vent’anni? Per esempio ti sposi, ti separi, ti gonfi, ti sgonfi, muori, risorgi e quella ragazza di Istanbul non è più una ragazza. Ma quand’è che una smette di essere una ragazza? Bevo ancora. Senti, se so che anche tu stai bevendo un po’ di whisky mi farebbe stare meglio, ok?”. invio la mail. Attendo, fissando lo schermo.

 

“Ciao ragazza di Istanbul. Da qualche parte mi ero scritto il tuo nome e così ti ho trovata. Ok. bevo anch’io. Whisky giapponese, il migliore al mondo, un Suntory Yamazaki Single Malt Sherry Cask, del 2013. Ottimo prima di morire. Sono in una casa, ho scoperto che è così piacevole avere una casa, una propria casa. E un giardino. Meraviglioso. E l’ho scoperto per caso. Perché mi sono fermato. Ho smesso di volare di qua e di là. Che cos’altro mi sono perso? Quale dolore non ho capito? Quali parole non ho sentito? Quale amore non ho amato? Che cosa sarebbe successo se invece di dire Ciao ragazza di Istanbul, il 31 agosto a Fiumicino, fossi venuto con te? A casa con te? Mi piace parlare del passato con il se. Ho un ultimo desiderio. Sentire dalla tua voce il racconto di quelle ore sul volo Istanbul-Roma, diciamo di quella tua e poi nostra giornata in aereo. Non ho mai più riso tanto in vita mia. Non voglio parlare della vita, mia o tua, voglio solo avere quel ricordo, avere il tuo racconto. Ricordami tutto”.

 

“Whisky giapponese? Cavolo! Questo mi manca manager. Sto bevendo un semplice scotch scozzese Ardbeg di dieci anni. E non sto morendo” (Qui – pensai – ci sta bene) “Certamente non prima di aver assaggiato il tuo whisky giapponese. Va bene per il racconto. Ti do il numero di telefono. Non il cellulare, il fisso. Non ho skipe e odio le webcam”. Invio la mail. La vita mi tremava, per il troppo alcol e perché quello si voleva ammazzare pure vent’anni fa. Ce la stavo mettendo tutta per vincere la sfida. Anche la mia. Squilla il telefono. Deglutisco. Rispondo.

 

Ciao ragazza di Istanbul. Ciao manager (Annullati vent’anni, dimostrazione che il tempo l’hanno inventato gli svizzeri per vendere gli orologi). Ce l’hai sempre il camicione del Gran Bazar? Sì…ma… Dai beviamo un po’. Ma sì, dai. Ho quasi finito la bottiglia ma era già a metà. Ti ascolto, ragazza. Comincia dall’inizio.

Dio, la solita voce profonda! Cercate di capire: quello stava per ammazzarsi – già ma come? – e si ricordava il mio camicione. Mi sento la seta addosso e, più o meno consapevole, accarezzo l’idea di un’avventura. Anche solo per telefono. Così è la vita.

“Tra l’altro, manager, proprio l’inizio non lo sai. Allora. Era stata la nostra vacanza a Istanbul. Io e lui, il mio uomo. Istanbul, perché volevo vedere l’oriente, Topkapi, il Bosforo. Mi trovai immersa in una bellezza malinconica, che ci aveva cullato, addormentato, trasognato. Ma veniamo a noi. A proposito: non ti ho mai chiesto perché stavi a Istanbul. Immagino il solito incontro di lavoro, o convegno o simili. Comunque. Il 31 agosto era la data del ritorno a Roma. Aeroporto superaffollato. Milioni di persone. Voli tutti in ritardo. Di ore. Lui va al desk a chiedere informazioni. Torna e mi fa :C’è un grosso problema. Abbiamo dimenticato di confermare il volo (ti ricordi? Allora si doveva confermare il volo) e non ci sono posti per noi. Ma scherzi? Io devo assolutamente tornare a Roma.

 

Com’è come non è lui si ricorda di un suo cugino caposcalo, comandante che ne so. Arriva la raccomandazione. Ma solo per un posto in business. Dopo due giorni l’altro posto. Io non volo da sola, lo sai – gli dico. A chi mi aggrappo? In quale torace affondo la testa durante il decollo? Non se ne parla proprio. E poi i soldi? No, non dobbiamo pagare niente in più, mi fa.

Dopo insistenze, baci e bacetti, mi convince: parto io, da sola. Entro in aereo, con la mente ormai già in fase di decomposizione, ma con la faccia di chi deve sfidare un drago, insomma, da schiaffi. Da quando ero adolescente mi è rimasta la faccia da ‘sfida’. Vengo ricevuta da un maggiordomo, cioè lo steward, che mi indica, con un lieve inchino, il mio posto, il primo della business class, accanto a te. Rimango un secondo in piedi, ti guardo, stavi bevendo non so che liquore, mi guardi con occhi cerulei, annacquati (in quel momento ho pensato a un mio ex, chitarrista di un gruppo jazz romano che era sempre strafatto) e, mentre ti alzi, fai un lieve inchino. Ci s’inchina in business. Quante volte l’hai fatto, eh manager? Ma ci sei? ‘Oh, sì. Sorridevo. Continua. Non ti fermare. Io sono qui’.

 

Ti presenti, e fai, già parecchio brillo, con voce bassa, roca, per cui afferro solo queste parole: sono… General manager di … E io ‘Elisa Ruta, ragazza universitaria, fuori corso…’.

Avevi un aspetto gradevole, diciamo pure che eri un bell’uomo e io volevo fare una buona impressione. Decido per la nonchalance, per nascondere la paura e mi tolgo il foulard che mi teneva, a mo’ di fascia, la massa dei lunghi e ricci capelli. Li scuoto e te li faccio assaggiare, sparpagliandoli sulla tua faccia. Oddio mi scusi, scusa. Con calma mi sistemo sul sedile. Indossavo pantaloni verde chiaro di lino, un po’ larghi e un camicione di cotone finissimo, a quadri di delicati colori giallo lilla verde. Ti sta benissimo, mi hai detto, a un certo punto delle nostre bevute. Ti ricordi? Portavo, a mo’ di zainetto, una borsa di pelle scamosciata con le frange. Il tutto comprato al Gran Bazar. Un martini per cominciare, mi fai. L’attesa è lunga. Sì, grazie. E poi un altro e poi un altro. Mi si confonde già la cabina, non del tutto chiusa, con i due supermen comandanti, in mezzo a quelle che mi parevano stelle ma erano pulsanti, il maggiordomo, le hostess e la tua mano che alza una bottiglia. Mi fai:‘Va bene una vedova?’ Ti ricordi? E io ‘Ma che cazzo dici?’ già abbastanza brilla e pensando che mi volessi dare un joint, una canna. La faccia era quella. Tra l’altro, stavamo negli anni ottanta, pieno riflusso, droghe eccetera. Cazzo in business non si dice, mi fai, ridendo come uno scemo e spruzzando il martini sul tuo vestito. È uno champagne, Veuve clicquot. Ah, beh, allora… Ma se sei un padrone – ti faccio – perché non viaggi con il tuo aereo privato? Intanto la ‘vedova’ andava giù liscia, cremosa…

‘Perché ho paura di volare, terrore…ho paura del vuoto in cui ci si trova lassù, che è uguale al vuoto che c’è qua dentro, dentro di me. Entro in uno stato psichico di forte sgomento appena comincia il rullaggio e poi il decollo e mi sento come un ammasso di molecole centrifugate… e non posso farmi vedere così. Sono in balìa del vuoto. Il cielo da quassù non esiste, la terra nemmeno e io non so più a chi appartengo, mi fai. E altre simili tristezze dette a testa in giù, tipo: Questa è stata la mia vita, sgomento, spavento, solitudine…’.

Restai in silenzio, facendo le boccacce più terribili rivolte a me stessa, per ciò che in quel momento non avrei dovuto ricordare”.

“Non ti fermare, continua, ti prego”, disse.

L’aereo cominciò a muoversi, uno schianto di hostess ci avvisò di allacciare le cinture. E tu all’orecchio mi fai, spostando la massa dei capelli con una delicata carezza “Guarda il sedere…splendido…ma tu sei più carina”. Ci guardiamo e cominciamo a ridere e ti dico:Ma non saremo due scemi? E non riusciamo a fermarci e ridendo ci spruzziamo in faccia il liquore. Ero entrata appieno nella sensazione di calore che ti fa sentire innamorata del mondo. Ti guardo e ti faccio: Ma che ci stai provando? Ma in quel momento comincia la fase del rullaggio e di lì a poco aumentò la velocità e tu cominci a piangere, in silenzio, e improvvisamente mi metti la faccia all’altezza del collo e ti avvinghi con la mano destra al mio camicione e cominci a parlare parlareparlare. Ti prego non mi lasciare, non te ne andare, stai con me. Continuo?

Ti prego sì.

Domani ho programmato la mia morte, mi fai. Questo è il mio ultimo volo. Mio padre è morto in volo, mia madre non l’ho conosciuta e la mia missione è fallita. Dove sono finiti i miei ideali? Sono solo. Non sento amore. Non riesco a innamorarmi. Dentro non ho niente. Nessuna mai s’innamorerà di me. Non voglio più questa vita. Non ho una casa, solo alberghi. E io allora ti ho chiesto (ma ero proprio ubriaca): Alberghi…nel senso che sono tutti tuoi? E quanti sono?. E cominciai a ridere e tu pure e sghignazzavi, sempre addosso al mio collo, ormai bagnato della tua saliva. Poi tra una risata e un’altra hai cominciato a recitare Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera…e a cantare Lui, di nascosto, osserva te, tu sei nervosa vicino a me… Ed io fra di voi eccetera.

Dimenticato l’aereo e la paura. Stavo, ubriaca, in business, con il corpo di un estraneo avvinghiato al mio collo, un top manager potenziale suicida, depresso – pensai allora a chissà quanti operai avevi licenziato – e sicuramente misogino. Però questo top era così umanamente sconsolato, il suo corpo aveva trovato una consolazione vicino al mio, in maniera semplice, pulita, senza inganni, i nostri due corpi parlavano e così tutto ciò fece sì che ti accarezzai sui capelli ma poi, non trattenendomi più ti dissi, piano piano: Scollati, devo fare la pipì. E tu, biascicando e mezzo addormentato: No, non te ne andare. Ti prego… “Devo pisciare, cazzo…”: hai cominciato a ridere sgangherato e io sono riuscita a liberarmi e andare alla toilette.

Al ritorno ti ho ritrovato che respiravi in modo disordinato, sincopato. Mi hai guardato in maniera così profonda, i tuoi occhi sembravano aver localizzato la mia anima, mi sono seduta, ho allacciato le cinture con gli occhi sempre su di me, hai messo le mani sulle mie guance, mi hai baciato la fronte, i capelli e la bocca. Poi ti sei addormentato sulla mia spalla. Un sonno breve e ogni tanto dicevi cose senza senso…sono innocente…paura…morte. A Fiumicino sei sparito.

“La vita è passata, ragazza di Istanbul”.

“La vita non passa mai. Dai, continua, che mi sento la vena poetica”, dissi, per sdrammatizzare, ma sentivo già la voce che mi si spezzava.

“Ho rincorso la morte”, disse.

“La morte? La morte è una bevuta di champagne”, dissi: “Aspetta altri vent’anni per ammazzarti. Keep on the sunny side, manager”.

“Sì, ragazza di Istanbul” e chiuse il telefono.

Sì cosa? Sì cosa, manager?

Erano le quattro del mattino, e avevo una gran fame e io, anche allora, non gli avevo chiesto il nome. Mi preparai un panino con prosciutto e formaggio e un bel bicchiere di vino rosso. Tornai alla scrivania. Alba rosa-dorata, attraverso i vetri. La musica country di Johnny Cash. Scrivevoscrivevo. Il braccio era quasi sgonfio, gli occhi luccicanti, è che a volte la musica ti fa piangere.

Is it getting better Or do you feel the same? You say one love one life One love We get to share it…Staandandomeglio o tisentiuguale? Tu dici un amore, una vita, un amore dobbiamo condividerlo…

Grande Johnny Cash.

 

UNA SECONDA POSSIBILITÀ – di Alessio Serra

di Alessio Serra

 

Mi risveglio all’improvviso e i miei occhi non riconoscono più la realtà che ricordo di averabbandonato. Per un attimo infinito il panico miassale: mi ritrovo con un tubo infilato nella gola e un conato di vomito risale fino a quasi soffocarmi. Lo respingo a forza e cerco di tranquillizzarmi, mentre con gli occhi sbarrati focalizzo le immagini appannate che pian piano acquistano un contorno. Quello che vedo, o meglio, quello che non vedo, mi spaventa da morire e posso avvertire il cuore martellarmi nel petto, come se volesse uscire e lanciarsi fuori dall’immobile carcassa che riconosco essere il mio corpo.

 

Posso udire soffocato il ritmico bip dei macchinari alla mia destra e scorgere diverse flebo appese al palo alla mia sinistra. Dove diavolo sono finito? Questa che sto vivendo è ancora la realtà o sto sognando?

Se questo è solo un sogno, voglio che questa sia la mia seconda possibilità. Per una persona semplice e

comune come me ne è sufficiente una sola. Nessun amore impossibile, niente viaggi nello spazio, né

ricchezza infinita o eterna lunga vita. Un sogno che ne contiene tanti altri e li rende realizzabili; se non tutti,

una parte, o anche uno soltanto. Sarebbe perfetto anche così, sarebbe speciale, e mi accontenterei.

 

Chiunque di noi vorrebbe avere a disposizione una seconda possibilità, ne sono convinto. Quanto sarebbe

diversa la vita di ognuno di noi se ad un certo punto avessimo il potere di cambiare le cose? Forse quel

secondo tentativo porterebbe ad una vita felice, o forse una infelice, o magari non cambierebbe assolutamente niente ma… quel che conta, in fondo, è averla quella seconda possibilità. Non ti domandi mai come sarebbe ora la tua vita se avessi avuto quella possibilità? Saresti ugualmente qui, ora, a pensarci?

Potresti cambiare quel pessimo voto, preso una volta sola alle scuole elementari, che ti ha fatto sentire

ridicolo di fronte a tutta la classe e ti ha fatto perdere per sempre la benevolenza di quell’insegnante che ti

stimava e tu stimavi altrettanto. Forse potresti confessare il tuo amore a quella stupenda ragazza del liceo che ti piaceva tanto e arrossivi al solo pensarla. E sì che la pensavi tanto, ma tanto davvero, e avresti voluto che fosse lei la donna della tua vita. E invece non hai trovato il coraggio di dirle nulla quando ne avevi la possibilità (una delle tante), e lei è rimasta abbindolata dal classico belloccio che l’ha fatta soffrire, o da un anonimo tizio che la renderà sicuramente meno felice di quanto avresti potuto fare tu. Per non parlare di quell’altra ragazza a cui ti eri invece molto legato ma che non hai saputo tenerti stretta a causa della tua giovane ingenuità. Lei ti ha lasciato e, per indorare la beffa, con il passare dei mesi cercava te, soltanto te, per sfogarsi. Piangevadall’altro capo del telefono, dandosi della stupida nell’aver scelto, dopo di te, uno che le usava violenza.

 

E tu l’ascoltavi per ore. L’ascoltavi urlando dentro te stesso senza poter fare niente se non consolarla con

parole che non avresti voluto dirle, senza poter tornare indietro. Con una seconda possibilità in più forse avresti potuto prendere quel treno per arrivare puntuale a quell’importantissimo colloquio di lavoro che ti

avrebbe cambiato la vita. Ti eri preparato così bene, avevi comprato l’abito giusto e annullato ogni

impegno con gli amici per preparare la documentazione che ti avrebbe fatto fare bella figura. Eri anche rimasto sveglio tutta la notte per preparare un discorso con il quale fare colpo. E invece hai dimenticato di puntare la sveglia e hai perso per sempre quell’opportunità. Perché sei stato così sciocco? Perché essere superficiali con qualcosa che potrebbe non ricapitare più? E se poi, invece, quel

colloquio non avesse comunque condotto a niente? Hai pensato anche a questo?

 

Quante altre occasioni potrei citare in cui sbagliare o meno avrebbe fatto la differenza? Col senno di poi

tutto è più semplice… o più complesso. Sono rare le persone che sono felici della loro vita e vorrebbero quella chance, irripetibile e fondamentale per loro, quella scintilla che li farebbe sentire di nuovo in pista e farebbe riscoprire il valore di ogni nuovo giorno. E se invece questa seconda possibilità non si potesse

avere? Esistono i sogni, sì, quelli notturni, onirici, quelli in cui puoi essere ciò che nella realtà non saresti

mai. In essi può veramente accadere di tutto ed è proprio questa imprevedibilità che li rende una

roulette russa. Andiamo a dormire e speriamo di rivivere nel sogno il nostro passato e lì cambiare le

cose, ma ci ricordiamo una volta di più quanto tutto sfugge facilmente al nostro controllo. Talvolta è

sufficiente svegliarsi per dover andare in bagno alle due del mattino, o udire il trillo della sveglia, o

l’abbaiare del nostro cane, per infrangere in un attimo quanto di più bello, o di brutto, stiamo vivendo. Non è questo il tipo di sogno che voglio. La neve è così strana vista da questa posizione. Dal letto su cui sono bloccato da fin troppi mesi non riesco a vedere al di là della base della vetrata, e ai miei occhi si profila solo una distesa bianca. Una figura amica si accosta a me e, bardata da capo a piedi con cuffia, mascherina, camice e guanti, mi prende delicatamente la mano e mi dice, con una voce che sembra giungere da tanto lontano: «Il trapianto è andato bene. Ti riprenderai, sei forte.»

 

Senza più quell’orribile tubo nella gola a impedirmi di parlare, ma con l’impressione di aver ingoiato acido

per giorni e giorni, rispondo: «È questa la mia seconda possibilità?»

Come risposta ricevo solamente un gesto di diniego col capo e la presa sulla mia mano destra diventare

più salda. Riesco finalmente a percepire il calore e ricordarmi la sua essenza. Le ferite del mio ultimo intervento bruciano ancora, mi sento solo, in una stanza con infermieri di cui non conosco i volti, occupati a monitorare pazienti che, a differenza di me, non si sono ancora svegliati dall’anestesia e forse non si risveglieranno mai. L’isolamento della terapia intensiva è una gabbia di apatia soffocante in cui il tempo trascorre così lento da sembrare fermo. Solo quei fiocchi di neve che discendono senza suono regalano la conferma che il mondo, fuori da questa stanza, continua a girare, e là fuori esiste ancora una realtà che non mi appartiene più.

 

Se solo potessi avere quella seconda possibilità… sarei ugualmente qui adesso? Quell’intervento al quale ho scelto di sottopormi era davvero da fare? Se non l’avessi fatto sarei sopravvissuto al male che mi

stava consumando? Si sarebbe potuta definire ugualmente vita? Il corpo mi brucia, stringo i denti e la rabbia mi assale. Non ho mai voluto tutto questo, non ho mai voluto sentirmi male ed essere costretto all’immobilità, non ho mai voluto occhi arrossati dal pianto rivolti verso di me, non ho mai chiesto infelicità per chi amo al posto della mia, non ho mai desiderato qualcosa di irraggiungibile, non ho mai pensato di meritare una seconda possibilità. Non dovrebbe essere consentita a tutti, ma essere donata solamente a persone speciali, quelle capaci di lasciare una traccia importante nel mondo.

 

Io non sono speciale, non lo sono mai stato, ma ora vorrei esserlo davvero, e meritare di uscire da qui,

tornando alla vita. Non desidero altro che questo. Guardo la neve che cade e attendo. Attendo che, fiocco

dopo fiocco, il tempo lasci i suoi segni su di me. Mentre la febbre incendia lentamente il mio corpo, il

mondo si tinge di bianco, tutto viene purificato da ciò che non serve più. Un ragazzo nel letto di fronte al mio si risveglia dopo mesi di coma, il mio comincia ora. Sospiro la mia magra consolazione: qualcuno ha appena ottenuto la sua seconda possibilità.

L’officina dei corpi – di Giuditta Godano

di Giuditta Godano

 

“Ardore” e “freddezza”, messi insieme, danno ambiguità: vissuta drammaticamente, ma senza esplicito conflitto. Ambiguità fissata dunque nel simulacro dell’enigmaticità

[Pasolini P.P. (1998), Tutte le opere, Romanzi e racconti , Vol. II, Milano, Mondadori, p. 1740-41.]

 

«Posso cambiare la mia scatola?»

«Vedrà che dopo non penserà di avere cambiato soltanto la scatola ma l’anima»

Gli uomini si suicidano come se andassero in guerra. Si sparano in bocca, s’impiccano, si danno fuoco, si recidono la carotide, si schiantano in strada. Qualche volta si perdono e scompaiono. Pensa al David Foster Wallace fotografato vicino a un cactus, un saguaro, nei dintorni di Tucson. Quando Bill Katovsky intervistò Wallace per Arrival all’inizio del 1987 intitolò il suo pezzo «Impiccalo più̀ in alto», in omaggio all’omonimo film con Eastwood, celebrando l’amore del giovane scrittore per gli spaghetti western, nella certezza del suo futuro successo. Non poteva immaginare che quell’immagine sarebbe stata anche un vaticinio macabro: l’anticipo sul conto che Wallace avrebbe pagato al successo.

 

Le donne, invece, le pareva scartassero soluzioni cruente, preferendo barbiturici, taglio delle vene, volo dalla finestra, qualche volta anche l’impiccagione con strumenti di fortuna come guinzagli e cinture. Vuoi mettere il martirio emotivo: trucco perfetto e corpo che si rompe dentro, pensava. Per non guastare l’espressione sollevata della riva, della quiete. Lo spettro malevolo, il doppio che abita la mente di superficie, la fissava dall’angolo della stanza, dal fondo del letto, dal silenzio della casa del mare a mezzogiorno, sussurrando «Non serve lottare, non serve lottare, non serve lottare», narcotico come il minuto che precede il sonno. Non si uccise. L’idea però le era stata di sollievo nei momenti trappola, come accade all’incompreso che immagina i genitori al suo capezzale, ravveduti per non averlo capito abbastanza. Giorno quindici aveva saputo di dover lasciare casa, in un modo buffo.

 

La padrona dell’immobile, che non aveva mai incontrato prima, le aveva chiesto di firmare un contratto in sospeso da un mese e mezzo, perciò il suo coinquilino benefattore se l’era presa a male per il suo rifiuto. Questo fatto insignificante l’aveva privata dell’ancoraggio di una tana e quando l’aveva raggiunta anche la notizia della malattia, aveva ripensato alla sezione di ipnosi regressiva nell’ospedale unitario dei Registri Akashici. In un’altra vita si era vista sposata a un artista alto e dalle mani mobili, abbandonata prima di partorire, attivista femminista e sostenuta da un figlio amatissimo, prima di morire a causa di un’operazione di carcinoma al seno. Quell’esperienza non andava rifatta, ne era certa e per questo riteneva la diagnosi incredibile. Stava bene nel tempo anteriore; il tempo dell’integrità e dell’amore. Alcuni amici chiamavano il ‘posto’ l’Officina dei corpi.

 

Nel “posto” si sostituiva la “scatola” e con essa era possibile procedere alla cancellazione definitiva della memoria corrotta. Era un luogo clandestino, accessibile tramite trial sperimentali di difficile ricognizione e altrettanto complessa selezione. Tuttavia, nonostante la radicalità del trattamento e i suoi costi proibitivi, nella cash resisteva talvolta qualche traccia di file guasto e, sebbene la procedura andasse il 99 per cento delle volte a buon fine, il nuovo assetto non sempre era coronato da un pieno successo, né corrispondeva alle aspettative del richiedente. La “scatola” in certe circostanze risultava afflitta da imprevedibili anomalie: per un vincolo di eredità oppure per l’ostinazione dei programmatori a seguire protocolli standard. Se tra coscienza e veicolo l’algoritmo produceva segmentation fault, cascate di conflitti di dati giungevano a spegnere o compromettere definitivamente la macchina. C’erano due tipi di manutentori nell’Istituto sorgente: i “conservativi” e i “demolitori”. Gli uni votati al bene comune, gli altri a una perfezione prossima all’eugenetica. Come apprese dai primi passi in questo piano inclinato della realtà ordinaria, non tutti potevano garantirsi un ingresso alla rigenerazione dell’hardware, a quel punto optavano per la manodopera reperita sul dark web, grazie ai browser senza tracciatura d’identità come Tor od Onion. Talché i rapporti fra le due scatole, o meglio, le due strade di ‘sostituzione’ o ‘riparazione’, finivano per non incrociarsi mai. L’uomo definitivo, auto sanificato a partire dalla ricopiatura dei processi antecedenti il crash down del disco mnestico, doveva ancora arrivare. Non aveva mai avuto sentore dell’esistenza di questo settore proibito, nel quale il veicolo corporeo poteva essere aggiornato oppure distrutto senza passare per il dolore e la mutilazione. Qualora, infatti, il trattamento fosse fallito, l’Istituto offriva la strada del penta barbiturico, che consentiva di passare dalla sedazione profonda alla morte senza lo scandalo e i contorcimenti della sofferenza terminale.

 

Prima del backup c’è un momento limbico di congelamento dei ricordi. I tecnici facilitatori, figure tutt’altro che secondarie nel ‘posto’, consigliano un volontario reset dei file cosiddetti “tenebrosi”. «Bisogna conservare soltanto memorie felici», dicono ai danneggiati. Dopo la descrizione, quando il Sistema sarà ripristinato, il ciclo iniziale somiglierà a quello nel momento dell’ibernazione. Per questo motivo consigliano un pilotaggio sulla base della tecnica del “copy”: imprimere ai dati flash in entrata una forma-ricordo priva di incertezza, pena l’interruzione del delicato processo di restart. Andarono così al mare, lei e l’unica amica reduce dal Sistema rigenerato, non per affondare dell’autocommiserazione ma per sentirsi partecipi di un grande scopo comune, con i piedi poggiati sulla sabbia e la testa sotto il sole, catturavano simultaneamente il frame perfetto prima del congelamento.

Affetti collaterali – di Stefano Gentile

di Stefano Gentile

 

Il mio Oncologo di riferimento ha scelto il regime “intra-moenia” e cura i suoi pazienti in un Ospedale enorme che affaccia sul Grande Raccordo Anulare. I primi tempi, quando lo andavo a trovare per strani dolori all’addome la cosa più difficile era parcheggiare perfino la Smart. Oggi, no. Oggi ho il contrassegno handicap, entro alla grande salutando la guardia giurata e mi sistemo in una delle tante piazzole riservate, quelle con il pupazzetto in carrozzella, bianco in campo celeste. Il mio Oncologo di riferimento è un uomo sui cinquanta, cinquantacinque anni, non bello ma prestante, di altezza media, una chioma folta di ricci neri, curato a profumato. Ha una predilezione per una essenza di nicchia, il Penhaligon’s, nella fragranza Blenheim Bouquet, che lui grazie ad internet fa arrivare direttamente da Londra. Lui ha un fisico asciutto, direi strutturato ed ha la passione per le maratone, per le quali ancora oggi si allena due tre volte alla settimana. Ne ha fatte diverse e tra queste anche la mitica maratona di New York.

 

Dopo circa mezz’ora di sala di attesa (che poi è l’androne davanti agli ascensori ) mi riceve, per sentenziare senza preamboli che inizierò alcuni cicli di chemio “adiuvante”. Così si chiama la chemioterapia da affrontare dopo una operazione chirurgica. E mi congeda, confermando che tutto è già organizzato. Comincerò tra una settimana all’IDI, Istituto Dermopatico dell’Immacolata, dove la dottoressa responsabile del Reparto Oncologia mi aspetta, al terzo piano della struttura che da ragazzo ho frequentato assiduamente per invadenti dermatiti alle mani ed ai piedi, poi spontaneamente scomparse con l’età, e dove delle infermiere affettuose e molto professionali, ancora oggi, una volta a settimana, mi sparano nelle vene il Paclitaxel, un farmaco a base di Taxolo. Speriamo che funzioni.

 

Tutto era cominciato due anni fa, con fastidiosi dolori al basso ventre ed un rigonfiamento sospetto ad un testicolo. Quello di sinistra. Per il mio Oncologo di riferimento la diagnosi, dopo palpazioni varie ed una biopsia localizzata, fu “facile” : tumore al testicolo.

Cavolo ! Ed ora che fare? “Beh mi disse il medico “Ti consiglio vivamente l’asportazione chirurgica dell’organo malato, prima che il tumore si estenda ai linfonodi, evento abbastanza probabile se non interveniamo”.

 

E così, con due Freccia Rossa, Roma-Milano e Milano-Roma all’Istituto Italiano Tumori lasciavo non un testicolo ma entrambi, perché il chirurgo urologo (oncologo anche lui) mi aveva chiesto se io avessi tenuto in maniera particolare a conservare il destro. E siccome alla mia età non avrei saputo che farmene, tornai a Roma con due belle palle nuove, perché lo scroto era stato utilizzato per ospitare due protesi in gel di silicone. Sicché l’estetica era salva, anzi ne aveva guadagnato.

 

Nei miei due anni di battaglie, di sale d’aspetto ne avrò viste più di una ventina. Una diversa dall’altra. Stanze, stanzoni o corridoi. Quasi tutte disadorne, equipaggiate con sedie per lo più metalliche, o in alluminio o cromate (forse si disinfettano meglio ?). Abbastanza rare le poltroncine. Non un fiore, non un giornale. Il corridoio è anche più alienante perché talvolta vi transitano dei pazienti in barella, con flebo penzolanti, quasi sempre molto malconci. Quando dicono: “Si accomodi in sala d’attesa”, scatta la prima piccola angoscia, perché non sai chi ci trovi, quanti sono lì prima di te… e tu li saluti quando entri, ma pochi ti rispondono, alcuni con un incomprensibile mugugno.

 

I pazienti oncologici ed i loro parenti (moltissimi sono accompagnati) trascorrono diverse ore in queste sale in una routine non gradita e le sale diventano contenitori di ansie, di paure , di preoccupazioni, di parole dette e di parole non dette. Un dolore silenzioso, ma anche la speranza di uscirne e di poterlo raccontare. Il pensiero dominante credo sia l’augurarsi che tutto passi presto.

 

Finché, nel mio girovagare per reparti di Oncologia, mi imbattei un giorno nella Sala di Attesa del reparto di Oncologia dell’Ospedale Fatebenefratelli, sull’isola Tiberina. Sulla porta d’ingresso c’era un grosso cartello con su scritto a caratteri cubitali colorati : “ Sala InatTèsa“. Mi fermai un attimo, indeciso se cercare altrove, ma fu proprio allora che mi venne incontro Barbara (aveva un bel cartellino sul camice con il nome ben leggibile), per invitarmi ad entrare. “Posso offrirle un Tè? Ha qualche preferenza?“ “Si“, risposi io senza esitazione, “Io amo molto l’Earl Grey”.

 

La sala, mi sorprese, era sgargiante di colori. Le pareti tappezzate di gigantografie con panorami marini e montani, alcuni tavolini quadrati rivestiti con tovaglie di carta a quadretti bianchi e rossi servivano di appoggio agli ospiti seduti, quasi tutti alle prese con tazze di tè fumante e biscottini di varia natura. In un angolo due bollitori producevano in continuazione acqua calda con un brontolio confortante. “Abbiamo deciso” mi sussurra Barbara all’orecchio, “di trasformare la vecchia sala d’attesa in un luogo in cui potessero essere condivisi la parola ed il pensiero. E sarà un successo se anche potremo semplicemente attenuare quel senso di solitudine ed abbandono che talvolta nascono con l’insorgere della malattia . Lasciarsi spaesare, ecco, questo deve fare anche lei, si lasci spaesare!” Trovai bellissimo questo consiglio. Spaesare, spaesare… mentre gustavo il mio Earl Grey che avevo addolcito con un cucchiaino di miele di acacia.

 

“Mi piace molto questa iniziativa, Barbara. Ma lei è medico?”

“No” rispose Barbara, “Io sono psicologa e psicoterapeuta. Mi occupo da alcuni anni di malati gravi e del fine vita. Qui sono una collaboratrice esterna, volontaria“.

All’improvviso una donna distinta si fece coraggio e cominciò a raccontare che era il suo primo giorno di chemio e lo avrebbe affrontato con l’applicazione di una nuova terapia e cioè l’infusione in endovena di un farmaco, il Trastuzumab (sì, disse proprio così Trastuzumab) associato con un altro farmaco, per tentare di sconfiggere una recidiva del carcinoma mammario che l’aveva aggredita alcuni anni prima. Era stata inserita nella fase III dello studio KATHERINE del quale erano stati riconosciuti incoraggianti risultati su un significativo campione di pazienti.

 

”E pensare che sono anche medico!“ concluse la donna con un bel sorriso sulle labbra curate. E fu così che la sala si animò con vivacità e movimento. I pazienti cominciarono a parlare fra loro, alternando le preoccupazioni per le cure a piccoli brevi racconti personali, alcuni ricchi di sottile ironia e di curiosità. Poi chiamarono il numero 12, era arrivato il mio turno, e fu allora che chiesi a Barbara: “Ma voi siete qui tutti i giorni?” “No, questo è un esperimento che dura solo tre mesi. Lei ci può trovare, a me ed ai volontari che mi affiancano, martedì e mercoledì dalle 11 alle 12 qui in Oncologia oppure lunedì e giovedì dalle 10 alle 11 in Radioterapia. Io peraltro sono anche coinvolta in un altro percorso in aiuto alle cure oncologiche ed è l’affiancamento ai pazienti in occasione dei concerti dei “Donatori di Musica”. “Ha mai sentito parlare di loro?” “Oh sì“ esclamo io “Ho letto di risultati entusiasmanti di questo gruppo di musicisti. Pensi che, ma lei lo saprà certamente, prima di lasciare il reparto dove sono ricoverati, i pazienti si tirano a lucido, giacca e cravatta gli uomini, abiti eleganti le signore e scendono nella Sala Riunioni o nel Teatro, se c’è, con grande entusiasmo per partecipare al concerto. E se qualcuno sgarra e magari pensa di potersi presentare al concerto in pigiama e pantofole il Primario del reparto lo stoppa davanti all’ascensore e lo rimanda in camera! E ho letto anche che l’iniziativa coinvolge perfino gli operatori sanitari che con passione preparano la sala e l’accoglienza dei musicisti, nonché il buffet post concerto e tutta la convivialità che ne discende”.

 

“Beh la vedo informata”, mi dice Barbara “E lei sa come tutto ciò è cominciato?” “ No,” fingo io, per lasciarle la parola mentre la guardo affascinato. “Dunque un certo GianAndrea Lodovici, che era un critico musicale piuttosto noto, nativo di Firenze, si ammalò di carcinoma gastrico metastatico e nel suo ultimo anno di vita, nel tortuoso percorso terapeutico affrontato, approdò nel Reparto Oncologia dell’Ospedale di Massa e Carrara. Aveva perso l’interesse per la vita tanto da scrivere una struggente lettera di commiato ai parenti stretti ed agli amici più intimi. Ma fu il Primario del Reparto che lo pregò di mettere la sua professionalità di nuovo al servizio della comunità, e gli chiese di aiutarlo ad organizzare dei concerti di musica classica proprio in Ospedale, dedicato ai malati ed ai loro parenti. GianAndrea morì un anno dopo ma ormai il seme era gettato. Nacquero così i Donatori di Musica. Oggi hanno un calendario molto fitto di iniziative in giro per l’Italia, alle quali hanno aderito anche artisti del mondo dello spettacolo e della musica leggera, di grande spessore e di grande notorietà. Ecco, queste due iniziative umanitarie alle quali io do il mio modesto contributo sono quelle che io ho denominato “gli affetti collaterali”

“Grazie Barbara, la posso salutare abbracciandola? “

Il commiato fu molto commovente e mi ha lasciato anche un ricordo profano… Nell’abbraccio, il camice bianco di Barbara si era inevitabilmente sollevato e si era così sprigionato un profumo delicato ma inconfondibile: era l’Opium, di Yves Saint Laurent, una fragranza inebriante che fu la fissazione di una donna che nella mia vita aveva lasciato un segno indelebile. Lei non lo avrebbe cambiato mai con nessun altro profumo ed una volta che mi presentai con il Panthere di Cartier, buttò anche il contenitore in vetro, che allora era un’opera d’arte, con due pantere ai lati, scolpite, belle da morire.

 

Piccola storia di me (Miglior racconto 2019) – Di Gemma Patscot

Di Gemma Patscot

 

Giovedì 26 luglio 2018

Roberto Bolaño è morto a cinquant’anni. Io a cinquant’anni ho scoperto di avere un cancro. Un cancro al seno sinistro. Per diverse settimane, in quei giorni di smarrimento, prima dell’intervento, ho pensato che sarei morta anch’io a quell’età così perfetta. Ci sono età perfette per morire, se proprio bisogna morire giovani: una è senza dubbio trentatré, l’altra è ventisette. Cinquanta, però, supera tutte le altre in rotondità e compiutezza.

 

Nella mia mente quell’appuntamento con i cinquanta era da tempo una sirena spiegata che urlava “sta per finire tutto, stai per entrare in una galleria, il paesaggio intorno non lo vedrai più”. Non avevo molti motivi per festeggiare il raggiungimento del mezzo secolo, in effetti; la mia vita era ancora in gran parte irrisolta, come se avessi voluto inconsciamente essere quell’adolescente che sempre mi sono sentita,con tutto ancora da fare, da costruire, da realizzare. La sirena mi avvisava che ero fuori tempo massimo. Finito. Kaput. A cinquant’anni non avevo ancora un lavoro stabile, non avevo ancora una casa stabile; avevo sì avuto un compagno stabile,che, tuttavia, non era mai stato convinto di volerlo essere, tanto che mi aveva

lasciata inaspettatamente qualche mese prima.

 

Come un treno espresso, caldo di vita, durante la mia vita avevo sempre cercato di onorare tutte le stazioni e di caricarmi di tutto quello che dovevo, e anche di più,sulle mie rotaie malferme. Ma ora le stazioni della nuova decade, del mezzo secolo,avevano effettivamente in serbo per me lunghe gallerie, come avevo temuto, ma non soltanto perché, appunto, rappresentavano gli anni della perduta giovinezza,delle perdute speranze, ma perché, mi mettevano di fronte all’idea concreta della mia morte. Le parole carcinoma, cancro, tumore, morte, baluginavano intorno a me, come gli scheletri e i mostri mollicci nel buio tunnel delle streghe, al luna park; mi alitavano sul viso, mi sfioravano le gambe, mi gracchiavano nelle orecchie con lamenti spaventosi.

 

E ora anche la spunta sulla casella “salute” della mia vita irrisolta era da cancellare. En plein.

 

giovedì 26 luglio 2018

Quando mi è stata consegnata una prima certezza sul fatto che io avessi un tumore,non lo hanno chiamato per nome. Era la seconda senologa in una settimana. La settimana prima, una sua collega, in un altro ospedale, aveva fatto lo stesso. Aveva passato e ripassato la sonda sul seno, indugiato in lunghi silenzi, lunghi sguardi, e alla fine mi aveva consegnato tra le mani un allarme: bisognava indagare,i noduli, due non uno, erano sospetti. Come ladri, corruttori, assassini. La settimana prima, tutto aveva cominciato a fermarsi. Sentivo ancora lo stridore dei freni el’odore di carbone della galleria.

 

Ma la seconda senologa doveva cancellare quel sospetto, rimettere in moto il treno,restituirmi alla mia fioritura estiva di metà luglio, era questo il suo compito. Invece,lei faceva smorfie – la vedevo anche se la stanza era praticamente buia – e dopo un po’ aveva cominciato a dire “non sono molto belli questi noduli”. Sì perché il cancro,ovvio, non è bello: è duro, è opaco, è scuro. Il cancro è anacogeno, non riflette, non

si sposta, come una palla al piede di chi è costretto ai lavori forzati. La seconda senologa non ha pronunciato la parola “cancro”, ma mi ha punta con forza con l’ago – il mio cuore si è afflosciato – mi ha allungato il numero di un chirurgo, scarabocchiato su un foglio bianco che ancora conservo – il mio respiro ha sussultato. Ero andata da lei per farmi sentire dire “sono solo cisti, niente di maligno”, invece mi ritrovo con in mano il numero di un chirurgo. La dottoressa, mi ha freddato con sufficienza “Su, signora”. Cosa vuole che sia, è solo un cancro al seno.

Che sarà mai.

 

I casi di tumore al seno sono tanti, sempre di più, perché perdere tempo, perché indugiare nella compassione? Occhi bassi e, in fretta, il numero del chirurgo, come se fosse il numero di una donna delle pulizie, tieni ti consiglio questa. Ma questo chirurgo, tu lo sai bene, dottoressa, deve scavarmi fin dentro al cuore mio.

 

giovedì 26 luglio 2018

Mi hanno detto che avevo un cancro quando mi sentivo nel pieno di una rinascita,nuotavo e pedalavo a più non posso, presa dalla solita smania di superare le mie mollezze. Ero appena andata in ferie e avevo ritrovato il ritmo della natura dentro di me, dopo un anno intero in cui avevo smesso di vivere la mia vita, per vivere dentro quella di Carlo, il mio compagno. Era deceduto da pochi mesi ed io vivevo ancora

nello stordimento del lutto, della mancanza; camminavo ma mi mancava un braccio,ridevo ma portavo un pugnale nel petto. Sì, nel petto, proprio lì, a sinistra. In quel momento, lui continuava a visitare tutti i miei sogni, notturni e pomeridiani, il dolore mi attaccava alle spalle come un ladro, mi apriva a bastonate il cuore quando la guardia era bassa, mentre guidavo, mentre guardavo la tv, mentre mangiavo. Eppure, poco a poco, il mio corpo aveva ricominciato a vivere, a rispondere ai richiami dell’estate, come un corpo inerte risponde sussultando, suo malgrado, agli stimoli elettrici a 220 volts. Mi sentivo così, un corpo vuoto, un osso buco, un guscio, una conchiglia, un carapace. Ogni giorno qualcuno, io, si prendeva cura di me e della mia routine: mangiare, andare al lavoro, vestirmi, lavarmi. Ora mi stava prendendo per la collottola e mi trascinava ogni giorno in piscina. E il mio corpo,pian piano, tornava ad imparare la vita, quella fatta di contorni, di piccole cose insignificanti.

 

I primi giorni in piscina facevo poche vasche, mi veniva l’affanno, ascoltavo i battiti del cuore, temevo di non farcela, anzi ne ero convinta. Il mare appariva ancora troppo lontano per me, al mare non riuscivo ancora ad andarci, come tutte le cose che adoravo e che mi davano felicità. Non riuscivo a concedermi la felicità, mi infliggevo inconsapevolmente ma tenacemente una spietata, quotidiana punizione e non c’era verso di uscire da quel lucchetto che avevo chiuso sulla mia vita presente. L’acqua ferma, spessa e tiepida della piscina serviva invece a riabituarmi a un piccolo tempo per me, mi regalava, senza urtare l’intolleranza del mio lucchetto, una confortevole solitudine curativa. E lentamente ero riuscita a farmi forza e dopo una settimana nuotavo come un razzo, tenevo d’occhio l’orologio sulla parete per contare i miei tempi e sudavo di caldo e velocità. Il mio corpo scivolava, batteva sull’acqua, sollevava spruzzi,tagliava l’aria, respirava. Il mio corpo era ancora mio. Era acqua e cielo e bagliore.

 

Ed io ero passata dall’inerzia e la mollezza all’eccesso di moto. Era sempre così. Non conoscevo l’equilibrio. Mangiare troppo o troppo poco,lavorare troppo o niente, amare dando fondo alla mia anima o respingere in modo definitivo. No, odiare no. Non era quello il verbo opposto ad amare, per me. Era un sostantivo: insofferenza. Era incapacità a sopportare la vicinanza, la presenza nella propria vita, di una determinata persona. L’odio credo di provarlo solo nei confronti degli automobilisti quando sono alla guida. È una sinfonia dell’odio guidare, per me. Eppure già allora, in quella lenta e misurata rifioritura tardiva, nel mio corpo c’era il cancro. Da quando era lì? C’era già nove mesi prima quando al controllo annuale mi

era stato detto che andava tutto bene?Scrutavo la mammografia di quell’ultimo controllo cercando quei grumi, quei buchineri fosforescenti che risaltavano nella mammografia sospetta.

 

giovedì 26 luglio 2018

Penso sia stato lui, Carlo, quella notte di metà luglio, a mandarmi quel dolore, se no non mi sarei toccata, sdraiata sul letto, per capire dove fosse quel dolore e non avrei scoperto il mio sassolino in mezzo al petto. Poi avrei saputo che i sassolini erano due, inamovibili, immassaggiabili, inscioglibili; ma il campanello suonò

quando sentii quella pallina che mandava messaggi nella notte sotto la linea del mio seno sinistro.

 

 

E sempre lui, Carlo, qualche giorno dopo, mentre mi dibattevo ancora nel sospetto,sperando che fosse solo un falso allarme, lui ­ – reale, non un sogno – nel ronzio del dormiveglia pomeridiano, era venuto a poggiarsi lieve su di me come un abbraccio. Io gli avevo chiesto, non so se con la voce, “Amore, sei tu? Come stai, amore?”. In un attimo avevo sentito che era triste, forse stava passando in uno stato superiore e voleva accomiatarsi? No, lui era triste per me, era venuto ad annunciarmi, come una piuma sulla mia spalla sinistra, la conferma della diagnosi, che sarebbe arrivata il giorno dopo. Era venuto a portarmi la consolazione muta dei sogni, di chi è solo spirito e ricordo. Tenevo ancora stretto quel filo ininterrotto. Sognare leniva bene l’assenza, molto più che parlare ad una foto.

 

giovedì 26 luglio 2018

Quando ho scoperto quei sassi sotto le mie dita, quando ho saputo con certezza che si chiamavano cancro, la mia vita si è capovolta, senza scossoni, senza pianti,senza strepiti, senza tremori. Ero entrata in un nuovo status. Tutto in standby. Lucina rossa accesa e, tutto intorno, un moto galleggiante. Avevo desiderato morire con Carlo quando lui mi aveva lasciato, per tanti mesi avevo pensato che sarebbe stato più facile per me chiuderla lì. Pur tuttavia la scoperta di avere un cancro, pur non sconvolgendomi, mi aveva messo addosso un’incredulità profonda, ero indignata, incredula ma soprattutto impietrita. Non ero preparata ad una malattia vera, avevo desiderato morire di una morte astratta, come un interruttore che spegni e via. No, non avevo messo in conto la malattia. Carlo se n’era andato nel volgere di dieci mesi e io non ne volevo sapere di malattie, ero disposta a morire solo fulminata.

 

Era ingiusto, e in più non era possibile. Io un cancro? Ma chi l’ha deciso? Ma sapete chi sono io? D’un tratto quell’emergenza mi aveva fatto riemergere in superficie: io,me, la mia vita. L’indolenza dopo la perdita di Carlo aveva lasciato il posto a una piccola nostalgia, una piccola tristezza, una piccola paura, una piccola ribellione;volevo un medico da interrogare e che mi dicesse la verità e mi spiegasse come fosse possibile non essermene accorta prima, se ero abituata da sempre a spalmarmi oli su tutto il corpo e anche sul seno. E per quale motivo nove mesi prima la mammografia non avesse rilevato niente. Cercavo risposte, lenimenti,spiegazioni soddisfacenti, carezze. “Ma come!? Io un cancro? Mangio bene, mi muovo bene, screening puntuale da quindici anni. Io il cancro?”.Non lo accettavo. Eppure mi sentivo calma, come se avessi già accettato tutto. Era la galleria che mi aspettavo, eccola davanti a me.

 

Quando si fa una mammografia poi si chiude il referto nel cassetto e non ci si pensa più fino all’anno seguente; perché se ti scansionano ogni anno e ti dicono “mi raccomando ogni anno, non due, perché lei ha il seno denso” e tu lo fai e vai ogni anno e va tutto bene, poi torni alla tua vita dove per il cancro non c’è proprio posto. E invece no, non andava tutto bene nove mesi fa allora, e non avrei dovuto rilassarmi solo perché qualcuno ogni anno rovistava i miei seni per me. Perché non basta. Non lo sapevo, non me l’avevano mai detto “Controllo tra un anno ma nel frattempo non dimenticare di eseguire un’assidua autopalpazione” no, c’era sempre e solo scritto “Controllo tra un anno”. Niente altro scritto, niente altro detto.

 

giovedì 26 luglio 2018

La ragazza seduta di fronte a me moriva di paura, raggomitolata intorno alla sua borsa troppo grande che teneva sulle sue gambe; volevo abbracciarla, consolarla,sentire che la mia paura si annientava nella sua, lei, così giovane. Averla di fronte a me in quel lunghissimo tempo di attesa, attenuava la paura accucciata nella mia testa a cui non volevo darla vinta, “io non ho niente”. La seconda senologa smentirà la prima, sicuro. Per dimenticare la paura e non crederci, mi immaginavo un incensario che su e giù,immenso, mi dondolava davanti, nella mia cattedrale di Santiago interiore, come una benedizione, che poi non è arrivata. La ragazza è andata via prima di me,sollevata, appesa al braccio di sua madre mentre io, all’uscita dall’ospedale, appesa al mio sbalordimento, nel sole accecante dal pomeriggio, non ero più la ragazza che

usciva dalla Cattedrale di Pamplona investita da una missione, non ero più l’intrepida pellegrina solitaria che voleva attraversare in bici il Camino di Santiago ea cui andava tutto bene e che si sentiva che le avevano perdonato tutto e che tutto sarebbe andato bene, e che la stella del Camino sarebbe stata sempre con lei,luccicante e benigna, come in quel sonno vivido e lontano di bambina, in cui una stella gigante mi aveva prelevato dal balcone di casa della mia compagna di giochi e mi aveva portato a cavalcioni, in giro per la notte. Quel sogno infantile impresso nella mia mente era così reale che penso che, da bambina povera, come nelle favole che premiano i fanciulli poveri e buoni e castigano quelli ricchi e cattivi, lo

avevo vissuto e non solo sognato. Ero certamente stata davvero in compagnia didue angioletti sconosciuti che mi avevano fatto navigare a bordo del loro destriero luminoso, per una notte.

 

Beh, ora, mentre correvo incredula fuori dall’ospedale con quella specie di diagnosi stretta in un foglietto, non ero più né quella giovane pellegrina che credeva che sarebbe riuscita, e ci riuscì, in un’impresa più grande di lei, né quella bambina innocente e innamorata del cielo e delle stelle tanto da volare nel silenzio del cielo notturno con gli angeli, a cavallo di una cometa pazzesca. Ora ero “touchable”.Sgambettavo allegra come si conviene ad una ex ragazza sana, con i miei abiti giovanili e il mio corpo ex giovanile, ma il mio seno sinistro, il luogo preciso dove per anni si erano annidati tutti i miei dolori, tutti i ticchettii impropri, tutti i contrappassi rumorosi che avevo spiato ansiosa e che mi avevano tolto il sonno,era diventato una campana dura, fatta di sassi: due. Troppi per il mio seno adolescenziale che ora rischiava la mutilazione a vita.

 

giovedì 26 luglio 2018

Non riuscire più a toccarsi, non sapere come trattarsi. Dovevo pensare al mio tumore come un cucciolo da coccolare o un diavolo da cacciare? Il mio tumore. Che erano due. E quindi la notte quando mi svegliavo o

prima di addormentarmi, quando mi mettevo a pancia in giù e le mie dita toccavano la pelle lì, senza volere, e doleva senza dolore e il pensiero senza pensiero bruciava come tungsteno: avevo un cancro dentro e lo potevo sentire distintamente. Eppure continuavo imperterrita a pensare “no, no, no” oppure “ora mi passa”.Speravo, infatti, che se ne andasse così com’era arrivato, che venisse polverizzato da una pioggia di stelle estive. Pregavo che se lo succhiasse su quell’ulivo immenso che cigolava nel caldo, che lo mescolasse alla sua linfa potente e lo svaporasse in cielo, come un fumatore incallito. Che un raggio misterioso proveniente da Marte,così vicino e lucente in quel periodo, attraverso quel pinnacolo al centro del trullo,

mi trafiggesse come un dardo angelico, mentre dormivo e non mi accorgevo di niente. “Trafiggimi, Marte combattente, me, il mio cuore, il mio tumore, accendi scintille, brucia i miei ragnetti, le mie serpi invadenti”.

 

Poi ho smesso di pensare ai miracoli. Non stavano funzionando. Dovevo trovare la forza nella mia mente, nel mio corpo vivo e vegeto intorno a quel tessuto morto. Mala mia mente incespicava, si attorcigliava sulle mie colpe; cosa ho sbagliato,quando mi sono distratta pensando che a me non sarebbe mai successo niente?Perché non mi sono mai autopalpata? Mi sono mancate le proteine e ho mangiato troppi taralli? O forse non ho camminato abbastanza, forse era troppo poco il tempo che dedicavo a Pilates? Forse ho solo corso con i pensieri per troppi anni? Forse lavoro troppo intensamente, forse mi sono dedicata troppo? Avevo fatto del male a qualcuno? Forse era stato trent’anni fa; ma il mio karma ancora se lo

ricordava? Pensavo che avessi già pagato. Certo che ho pagato. E sono stata stronza anche sette anni fa. Ma poi ho così tanto amato che di certo, sono sicura,mi è stato perdonato: “Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati,perché hai molto amato”.

 

I miei pensieri rincaravano la dose del mio senso di colpa astratto e concreto, a seconda dei momenti, e nella mia mente si è insinuato pian piano il pensiero del peggio, della situazione fuori controllo, della morte: smettere di lottare, di ribellarsi,lasciarsi inghiottire come Ivan Illich, arrendersi, alla fine, dopo tanto dibattersi e urlare. Scivolare dentro la “buca buia”, ecco cosa mi sarebbe successo: la mia galleria.

Forse il tumore già mi stava scavando, si stava impossessando di me, come quei dischi volanti con le zampette, come una valva cieca con mille piedi, stava colonizzando il mondo dentro di me, quello che silenziosamente funzionava e mi teneva in vita da cinquant’anni, con molti inciampi ma nessun collasso. E ora? Cosasi era inceppato? Avrei voluto assistere a quell’attimo esatto in cui la cellula era andata storta, si era sbagliata, error code, per assistere all’evento eccezionale, la natura che si sbaglia e tutto cambia e scolora e si sfuoca e incancrenisce.

E per calmarmi mi guardavo allo specchio e scrutandomi non vedevo niente che non andasse, niente nei miei seni, simmetrici, belli, come sempre. Il seno sinistro non tradiva la sua colpa se non per il tenue rossore nella parte sottostante, causato dall’indugiare dell’ago che aveva spiato e attestato la malignità di quei sassi, sassi cattivi: se avessi fatto un salto avrei sentito il loro suono ciottoloso? Forse no,sarebbero stati muti perché muti erano quando per caso la mia mano li aveva notati,muti, speravano di non essere scovati, acquattati nel mio seno sinistro, diretti verso la mia ascella sinistra. Muto è chi fa il male. Non ti risponde, si nasconde dietro un’email senza risposta o un whatsapp non aperto. Muti erano stati chissà per

quanto nel mio seno a cibarsi di me e della mia vita innocente.

 

giovedì 26 luglio 2018

Ed eccomi qui, con questa plasticaccia blu al posto del mio seno sinistro, a chiedermi se mi ci abituerò mai a questa nuova vita, uguale a sempre, ma così diversa. Come un’onda incessante, mi scordo e mi ricordo. Mi scordo di non avere più il mio seno sinistro per il cancro e subito dopo me ne ricordo, quando mi tocco

inavvertitamente, se mi avvicino troppo al tavolo mentre mangio o la notte quando mi giro e mi ferma quell’armatura. Prima o poi ci riuscirò, mi abituerò. Come ci si abitua in qualche modo a qualunque perdita nella vita, madri, padri, mariti, braccia,gambe, seni, figli. Perdere il mio seno morbido, la mia carne, in cambio dell’estirpazione di un cancro. Era stato un baratto giusto? E soprattutto: era stato un baratto definitivo? Non è che torna ora che sono “touchable”? Niente sarà più uguale, soprattutto per questo,

perché operarsi e sottoporsi a terapia ancora non è abbastanza, ancora non è tutto. C’è la cosiddetta sopravvivenza e ci sono quelle percentuali che parlano di altre come me, non me. Percentuali che mi mettono addosso speranza ma soprattutto paura.

 

Quando ho scoperto il cancro non vedevo l’ora di operarmi perché era quella l’odiosa ma unica soluzione al problema: perdere. Che opzioni ho adesso? Piangere e disperarmi, rimpiangere il mio essere sana, intera? Opzioni, non soluzioni. Ogni tanto allungo un piede nel territorio “accettazione” ma il terreno ancora non mi sostiene. Allora ritraggo il piede e chiudo la finestra: quel territorio, per il momento,lo spierò da dietro il vetro, finché non avrò imparato a camminarci su, finché non avrò imparato a non farmi inghiottire. Per ora rimango sul comodo terreno del “fare finta che”. Apparto il pensiero del mio seno finto, del ritorno della malattia, della buca buia, e rigo dritto. Lo apparto come una ciocca di capelli che mi cade sugli occhi e non mi permette di vedere bene il paesaggio, la sposto, me la metto con cura dietro l’orecchio, lì rimane, per un po’, e se cade di nuovo, di nuovo me la sistemo. E via così. Intanto mi godo il paesaggio. E le gallerie durano il tempo che devono, una percentuale minima rispetto a tutto il resto.

 

NON HO PAROLE CHE D’INCANTATO AMORE – di Carmelo Spitaleri

di Carmelo Spitaleri

 

Non ho parole che d’incantato amore

quando la vita s’incendia nei volti rari

delle ragazze al principio d’autunno,

nell’aria ormai viola può sfigurare

la ragione stessa della vita,

il nostro rancore testardo è in disfatta

e piace starsene in un pensiero

innaturale di senza ascolti e niente parole,

nel quasi giallo della foglia sta

la dolce malinconia della sera che viene

e la tua malattia sta docile nella stretta

delle mani.