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di Maria Luisa Valeri
Aveva picchiato duro, quella sera. Il braccio me l’aveva trasformato in un tronco, duro, nodoso, e ci vedevo anche dei lividi o forse erano semplicemente carne morta.
Insomma una zampogna. Gonfio come una zampogna. E così dovevo stare con il braccio destro sollevato, come quando te lo ingessano e te ne vai in giro con una specie di arco sospeso in aria. Per non parlare degli occhi. Quella sera me li aveva conciati per bene: palpebre gonfie, incavati, avevano pure cambiato colore, così mi sembrava, cioè che uno fosse diventato nero e quell’altro, il sinistro, fosse invece rimasto dorato-nocciola. Poi, a guardar bene, è che a destra ero in ombra, e il dorato si era scurito, come ottone sporco.
Davanti allo specchio mi prese una frenesia incontrollata: cominciai a spogliarmi, volevo vedere che altro mi fosse successo. Siccome il braccio destro era come un pallone, pesava di più e allora ero piegata verso la parte destra: sembravo una pianta venuta su storta. Mi prese a ridere, una ridarella come quando da adolescente ridi con le tue amiche ma non sai perché. E non riuscivo a smettere. Ad ogni fitta dolorosa del braccio-zampogna me lo guardavo attraverso lo specchio e lo mandavo tranquillamente a quel paese. Con il medio alzato, s’intende.
Poi, seria seria, presi coraggio, accesi tutte le luci della mia camera, era la prima volta che lo facevo. Mi guardavo e mi piacevo pure. Mi ero mantenuta in buona forma, avevo la pelle morbida, le gambe niente male, caviglie fine, polpacci sodi, grazie alle passate lunghe camminate. E poi, voilà. Una testa perfetta che metteva in risalto l’ovale. Non avevo più un pelo, una peluria, un capello. Neanche lì. Pube da neonata. Ripensai a tutte le cerette, fatte per quando c’era nell’aria un appuntamento. Cazzo, che dolore! No, non era il braccio, questo era il ricordo dello strappo fatto da sola in casa, con quello schifo di odore di cera calda che riempiva le stanze e i maschi di casa che si turavano il naso lamentandosi “Non se ne può più!”.
E poi c’erano loro, le tette. Anzi. Una tetta e mezzo. Però quella intera non era niente male: piccola ma ancora soda; la mezza un po’ ricurva, ma col tempo…Col tempo cosa? “Lo sai, cara signora, che hai ingaggiato una bella gara con il tempo?”.
Questa cosa del tempo mi rattrista sempre, e così anche allora, davanti allo specchio. Mi ricoprii con la più bella camicia da notte di seta color champagne, appartenuta a mia madre, avvolsi la testa in un foulard glamour del colore dei miei occhi e me ne andai a letto, sotto le coperte. Il tempo di quella notte sarebbe stato lungo, il braccio si sarebbe gonfiato ancora di più, avrei stramaledetto i linfonodi che non c’erano più, così che la linfa non circolava più, aspettando la mattina dopo quando mi sarei recata all’ospedale per siringare tutto il liquido. In più.
Il tempo del cancro. Che non è esattamente un segno zodiacale.
Stavo supina, occhi chiusi, dovevo pensare, pensare e poi dormire. Pensare. Ai viaggi per esempio. A quelli del futuro. No, sei superstiziosa, meglio a quelli che hai fatto nei tuoi 48 anni. No, a quelli che ho fatto da sola, no anche a quelli che hai fatto con lui. Ma lui dov’è? Non c’è, siamo separati da un anno. Sì, però vi amate ancora. Ma no, è che…
Basta. Aprii gli occhi e decisi di alzarmi, dato che non mi mettevo d’accordo su quello che dovevo pensare e il dolore si faceva più forte se rimanevo distesa.
Non avevo più scritto neanche un rigo, eppure ne avevo una voglia…Scrivere ogni momento, ogni cosa che guardavo, sentivo, assaporavo, l’acido in bocca dopo la chemio, l’amore di mia sorella, la preparazione delle sue raffinate ricette per tentarmi, la morte di mia madre, le mie parole “Spero che non mi capiti come a nostra madre, di ammalarmi di alzheimer…”.No, non preoccuparti, ti ammalerai di cancro. E quello quando colpisce…ci va giù duro! Quella sera volevo riprendere a scrivere, proprio quella sera, con quel braccio, chissà come potevo fare ad accostare la mano al computer e premere sui tasti…Dunque. Mi recai nello studio, andai alla scrivania e accesi il computer.
Decisi di dare prima un’occhiata a facebook: ero iscritta da poco, su insistenza di un’amica, ma non ci stavo quasi mai, mi sembrava una perdita di tempo. C’erano espressioni di vario tipo, al solito. Ma all’improvviso, un messaggio “Ciao ragazza di Istanbul. Sto morendo. Il manager”. Seguiva l’indicazione di una mail. Mi salì un fiotto di sangue alla testa, tanto che mi sembrò che fossero ricresciuti i capelli. Mi alzai e me ne andai di fronte alla finestra e lì per lì mi ritrovai il viso rigato da lacrime e lacrime. Era per quel “Sto morendo” che piangevo sconsolata, per quella ormai lontana settimana di amore e sesso a Istanbul con il mio lui, o per quella parola “ragazza”? Mi asciugai con il dorso della mano. Mi annotai la mail. Chiusi Facebook.
Andai di nuovo alla finestra. Il cielo era scuro, senza luna. Nella strada in salita vedevo le luci dei due ristoranti illuminare il marciapiede, alcune persone mangiavano fuori, nonostante l’aria fresca di settembre.
Il braccio me lo tenevo con un foulard che mi girava intorno al collo, così mi pesava di meno. Pensavo pensavopensavo. Immagini risate paure. Mi risuonava nella testa il saluto “Ciao ragazza di Istanbul” ma era una voce senza volto. Ma perché dopo quasi vent’anni uno si rifà vivo, ti saluta e ti dice Sto morendo? Mi toccai le labbra con la sinistra, erano secche. Avevo bisogno di bere. Guardai la bottiglia. Il whisky andava giù liscio, era parecchio tempo che non bevevo. Mi sentivo già meglio, fiduciosa, generosa e non so che altro.
Come si fa a scrivere a un morituro, conosciuto, vent’anni prima, per poche ore, in condizioni, diciamo così, stravaganti, di cui, allora, non capii il nome e per il nostro poco tempo passato insieme io lo chiamavo manager e lui mi chiamava ragazza di Istanbul? Il whisky intanto andava giù liscio.
Ecco come succede. Noi siamo fatti così. Noi umani, intendo. La vita la vita la vita. Una linfa che si può fermare. Poi qualcuno ti chiama, ha bisogno di te e la linfa ricomincia a scorrere, il braccio è gonfio ma non tanto, gli occhi sono sempre più dorati e neanche tanto incavati, il corpo te lo senti, te lo tocchi. Èleggero.
Cominciai a pensare a cosa potevo dirgli al manager, ponendomi la questione se l’aveva invitata lui la morte, la sua, o si era invitata da sola. Propesi per la prima ipotesi.
Mi alzai le maniche della camicia di seta, mi sentivo avvolgere dal calore della sfida, di quella sfida, contro la morte. E intanto il whisky andava giù liscio. La musica. Il country di Cash andava benissimo. Ecco come potevo iniziare la mail “Caro manager, keep on the sunny side, c’è un lato oscuro e inquieto nella vita, c’è pure un lato assolato e luminoso. Anche se incontri affanni e oscurità, il lato assolato potrà trovarti. Tieniti sul lato assolato, sempre sul lato assolato, tieniti sul lato assolato della vita…”. Grande Johnny Cash.
S’era fatta l’una di notte, i ristoranti avevano chiuso, era calato il silenzio della città, che, se ti trova sveglia, più che desiderare di andare a dormire, è una promessa di avventure. Non avevo scritto nemmeno un rigo. Sta morendo. Scrivi, dannazione!
“Ciao manager. Sono confusa anche perché ho bevuto un bel po’ di whisky e certamente non dovrei. Qualcuno che si ricorda di te, dopo vent’anni, beh, non perché ci sei stata a scuola, o c’hai avuto una storia, o è stata una bella scopata, insomma niente. Qualcuno si ricorda di te per tre ore di volo, dopo vent’anni. E ti dice “Sto morendo”. Mi fermai e mi dissi Cazzo, ma che sei stupida? Mi vennero in mente vari film con i poliziotti americani, “negoziatori“ specializzati nel salvare ostaggi, potenziali suicidi e simili e quelli cercano sempre di parlare d’altro, mica ricordano all’interessato che ha detto che vuole ammazzarsi. Cancello quindi la frase. Continuo. “E sai cosa può succedere in vent’anni? Per esempio ti sposi, ti separi, ti gonfi, ti sgonfi, muori, risorgi e quella ragazza di Istanbul non è più una ragazza. Ma quand’è che una smette di essere una ragazza? Bevo ancora. Senti, se so che anche tu stai bevendo un po’ di whisky mi farebbe stare meglio, ok?”. invio la mail. Attendo, fissando lo schermo.
“Ciao ragazza di Istanbul. Da qualche parte mi ero scritto il tuo nome e così ti ho trovata. Ok. bevo anch’io. Whisky giapponese, il migliore al mondo, un Suntory Yamazaki Single Malt Sherry Cask, del 2013. Ottimo prima di morire. Sono in una casa, ho scoperto che è così piacevole avere una casa, una propria casa. E un giardino. Meraviglioso. E l’ho scoperto per caso. Perché mi sono fermato. Ho smesso di volare di qua e di là. Che cos’altro mi sono perso? Quale dolore non ho capito? Quali parole non ho sentito? Quale amore non ho amato? Che cosa sarebbe successo se invece di dire Ciao ragazza di Istanbul, il 31 agosto a Fiumicino, fossi venuto con te? A casa con te? Mi piace parlare del passato con il se. Ho un ultimo desiderio. Sentire dalla tua voce il racconto di quelle ore sul volo Istanbul-Roma, diciamo di quella tua e poi nostra giornata in aereo. Non ho mai più riso tanto in vita mia. Non voglio parlare della vita, mia o tua, voglio solo avere quel ricordo, avere il tuo racconto. Ricordami tutto”.
“Whisky giapponese? Cavolo! Questo mi manca manager. Sto bevendo un semplice scotch scozzese Ardbeg di dieci anni. E non sto morendo” (Qui – pensai – ci sta bene) “Certamente non prima di aver assaggiato il tuo whisky giapponese. Va bene per il racconto. Ti do il numero di telefono. Non il cellulare, il fisso. Non ho skipe e odio le webcam”. Invio la mail. La vita mi tremava, per il troppo alcol e perché quello si voleva ammazzare pure vent’anni fa. Ce la stavo mettendo tutta per vincere la sfida. Anche la mia. Squilla il telefono. Deglutisco. Rispondo.
Ciao ragazza di Istanbul. Ciao manager (Annullati vent’anni, dimostrazione che il tempo l’hanno inventato gli svizzeri per vendere gli orologi). Ce l’hai sempre il camicione del Gran Bazar? Sì…ma… Dai beviamo un po’. Ma sì, dai. Ho quasi finito la bottiglia ma era già a metà. Ti ascolto, ragazza. Comincia dall’inizio.
Dio, la solita voce profonda! Cercate di capire: quello stava per ammazzarsi – già ma come? – e si ricordava il mio camicione. Mi sento la seta addosso e, più o meno consapevole, accarezzo l’idea di un’avventura. Anche solo per telefono. Così è la vita.
“Tra l’altro, manager, proprio l’inizio non lo sai. Allora. Era stata la nostra vacanza a Istanbul. Io e lui, il mio uomo. Istanbul, perché volevo vedere l’oriente, Topkapi, il Bosforo. Mi trovai immersa in una bellezza malinconica, che ci aveva cullato, addormentato, trasognato. Ma veniamo a noi. A proposito: non ti ho mai chiesto perché stavi a Istanbul. Immagino il solito incontro di lavoro, o convegno o simili. Comunque. Il 31 agosto era la data del ritorno a Roma. Aeroporto superaffollato. Milioni di persone. Voli tutti in ritardo. Di ore. Lui va al desk a chiedere informazioni. Torna e mi fa :C’è un grosso problema. Abbiamo dimenticato di confermare il volo (ti ricordi? Allora si doveva confermare il volo) e non ci sono posti per noi. Ma scherzi? Io devo assolutamente tornare a Roma.
Com’è come non è lui si ricorda di un suo cugino caposcalo, comandante che ne so. Arriva la raccomandazione. Ma solo per un posto in business. Dopo due giorni l’altro posto. Io non volo da sola, lo sai – gli dico. A chi mi aggrappo? In quale torace affondo la testa durante il decollo? Non se ne parla proprio. E poi i soldi? No, non dobbiamo pagare niente in più, mi fa.
Dopo insistenze, baci e bacetti, mi convince: parto io, da sola. Entro in aereo, con la mente ormai già in fase di decomposizione, ma con la faccia di chi deve sfidare un drago, insomma, da schiaffi. Da quando ero adolescente mi è rimasta la faccia da ‘sfida’. Vengo ricevuta da un maggiordomo, cioè lo steward, che mi indica, con un lieve inchino, il mio posto, il primo della business class, accanto a te. Rimango un secondo in piedi, ti guardo, stavi bevendo non so che liquore, mi guardi con occhi cerulei, annacquati (in quel momento ho pensato a un mio ex, chitarrista di un gruppo jazz romano che era sempre strafatto) e, mentre ti alzi, fai un lieve inchino. Ci s’inchina in business. Quante volte l’hai fatto, eh manager? Ma ci sei? ‘Oh, sì. Sorridevo. Continua. Non ti fermare. Io sono qui’.
Ti presenti, e fai, già parecchio brillo, con voce bassa, roca, per cui afferro solo queste parole: sono… General manager di … E io ‘Elisa Ruta, ragazza universitaria, fuori corso…’.
Avevi un aspetto gradevole, diciamo pure che eri un bell’uomo e io volevo fare una buona impressione. Decido per la nonchalance, per nascondere la paura e mi tolgo il foulard che mi teneva, a mo’ di fascia, la massa dei lunghi e ricci capelli. Li scuoto e te li faccio assaggiare, sparpagliandoli sulla tua faccia. Oddio mi scusi, scusa. Con calma mi sistemo sul sedile. Indossavo pantaloni verde chiaro di lino, un po’ larghi e un camicione di cotone finissimo, a quadri di delicati colori giallo lilla verde. Ti sta benissimo, mi hai detto, a un certo punto delle nostre bevute. Ti ricordi? Portavo, a mo’ di zainetto, una borsa di pelle scamosciata con le frange. Il tutto comprato al Gran Bazar. Un martini per cominciare, mi fai. L’attesa è lunga. Sì, grazie. E poi un altro e poi un altro. Mi si confonde già la cabina, non del tutto chiusa, con i due supermen comandanti, in mezzo a quelle che mi parevano stelle ma erano pulsanti, il maggiordomo, le hostess e la tua mano che alza una bottiglia. Mi fai:‘Va bene una vedova?’ Ti ricordi? E io ‘Ma che cazzo dici?’ già abbastanza brilla e pensando che mi volessi dare un joint, una canna. La faccia era quella. Tra l’altro, stavamo negli anni ottanta, pieno riflusso, droghe eccetera. Cazzo in business non si dice, mi fai, ridendo come uno scemo e spruzzando il martini sul tuo vestito. È uno champagne, Veuve clicquot. Ah, beh, allora… Ma se sei un padrone – ti faccio – perché non viaggi con il tuo aereo privato? Intanto la ‘vedova’ andava giù liscia, cremosa…
‘Perché ho paura di volare, terrore…ho paura del vuoto in cui ci si trova lassù, che è uguale al vuoto che c’è qua dentro, dentro di me. Entro in uno stato psichico di forte sgomento appena comincia il rullaggio e poi il decollo e mi sento come un ammasso di molecole centrifugate… e non posso farmi vedere così. Sono in balìa del vuoto. Il cielo da quassù non esiste, la terra nemmeno e io non so più a chi appartengo, mi fai. E altre simili tristezze dette a testa in giù, tipo: Questa è stata la mia vita, sgomento, spavento, solitudine…’.
Restai in silenzio, facendo le boccacce più terribili rivolte a me stessa, per ciò che in quel momento non avrei dovuto ricordare”.
“Non ti fermare, continua, ti prego”, disse.
L’aereo cominciò a muoversi, uno schianto di hostess ci avvisò di allacciare le cinture. E tu all’orecchio mi fai, spostando la massa dei capelli con una delicata carezza “Guarda il sedere…splendido…ma tu sei più carina”. Ci guardiamo e cominciamo a ridere e ti dico:Ma non saremo due scemi? E non riusciamo a fermarci e ridendo ci spruzziamo in faccia il liquore. Ero entrata appieno nella sensazione di calore che ti fa sentire innamorata del mondo. Ti guardo e ti faccio: Ma che ci stai provando? Ma in quel momento comincia la fase del rullaggio e di lì a poco aumentò la velocità e tu cominci a piangere, in silenzio, e improvvisamente mi metti la faccia all’altezza del collo e ti avvinghi con la mano destra al mio camicione e cominci a parlare parlareparlare. Ti prego non mi lasciare, non te ne andare, stai con me. Continuo?
Ti prego sì.
Domani ho programmato la mia morte, mi fai. Questo è il mio ultimo volo. Mio padre è morto in volo, mia madre non l’ho conosciuta e la mia missione è fallita. Dove sono finiti i miei ideali? Sono solo. Non sento amore. Non riesco a innamorarmi. Dentro non ho niente. Nessuna mai s’innamorerà di me. Non voglio più questa vita. Non ho una casa, solo alberghi. E io allora ti ho chiesto (ma ero proprio ubriaca): Alberghi…nel senso che sono tutti tuoi? E quanti sono?. E cominciai a ridere e tu pure e sghignazzavi, sempre addosso al mio collo, ormai bagnato della tua saliva. Poi tra una risata e un’altra hai cominciato a recitare Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera…e a cantare Lui, di nascosto, osserva te, tu sei nervosa vicino a me… Ed io fra di voi eccetera.
Dimenticato l’aereo e la paura. Stavo, ubriaca, in business, con il corpo di un estraneo avvinghiato al mio collo, un top manager potenziale suicida, depresso – pensai allora a chissà quanti operai avevi licenziato – e sicuramente misogino. Però questo top era così umanamente sconsolato, il suo corpo aveva trovato una consolazione vicino al mio, in maniera semplice, pulita, senza inganni, i nostri due corpi parlavano e così tutto ciò fece sì che ti accarezzai sui capelli ma poi, non trattenendomi più ti dissi, piano piano: Scollati, devo fare la pipì. E tu, biascicando e mezzo addormentato: No, non te ne andare. Ti prego… “Devo pisciare, cazzo…”: hai cominciato a ridere sgangherato e io sono riuscita a liberarmi e andare alla toilette.
Al ritorno ti ho ritrovato che respiravi in modo disordinato, sincopato. Mi hai guardato in maniera così profonda, i tuoi occhi sembravano aver localizzato la mia anima, mi sono seduta, ho allacciato le cinture con gli occhi sempre su di me, hai messo le mani sulle mie guance, mi hai baciato la fronte, i capelli e la bocca. Poi ti sei addormentato sulla mia spalla. Un sonno breve e ogni tanto dicevi cose senza senso…sono innocente…paura…morte. A Fiumicino sei sparito.
“La vita è passata, ragazza di Istanbul”.
“La vita non passa mai. Dai, continua, che mi sento la vena poetica”, dissi, per sdrammatizzare, ma sentivo già la voce che mi si spezzava.
“Ho rincorso la morte”, disse.
“La morte? La morte è una bevuta di champagne”, dissi: “Aspetta altri vent’anni per ammazzarti. Keep on the sunny side, manager”.
“Sì, ragazza di Istanbul” e chiuse il telefono.
Sì cosa? Sì cosa, manager?
Erano le quattro del mattino, e avevo una gran fame e io, anche allora, non gli avevo chiesto il nome. Mi preparai un panino con prosciutto e formaggio e un bel bicchiere di vino rosso. Tornai alla scrivania. Alba rosa-dorata, attraverso i vetri. La musica country di Johnny Cash. Scrivevoscrivevo. Il braccio era quasi sgonfio, gli occhi luccicanti, è che a volte la musica ti fa piangere.
Is it getting better Or do you feel the same? You say one love one life One love We get to share it…Staandandomeglio o tisentiuguale? Tu dici un amore, una vita, un amore dobbiamo condividerlo…
Grande Johnny Cash.
Data di pubblicazione: 08 Giugno 2019